Vermicino. Quella diretta ininterrotta per 36 ore

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Quell’11 giugno di quarant’anni fa in cui mi venne chiesto di non concludere il telegiornale delle 13,30 che stavo conducendo, ma di continuarlo per seguire in diretta quello che sembrava un innocuo fatto di cronaca, cioè il salvataggio di un bambino caduto la sera prima in un pozzo a Vermicino, alla periferia di Roma, non era la prima volta che mi capitava di gestire una edizione straordinaria del tg.

Mi era già successo con il sequestro Moro, con la strage di Ustica, con il terremoto in Irpinia, l’attentato a papa Giovanni Paolo II…

Ma quella volta fu diverso: quella telecronaca partita alle ore 14, si trasformò inconsapevolmente in un evento che sarebbe entrato a far parte della storia della televisione e del Paese.

La certezza di riuscire a salvare quel bambino infatti, si rivelò lentamente, ora dopo ora, una tragica illusione. Ma ormai era troppo tardi per tirarsi indietro. Non si poteva più “staccare il bottone”.

Anzi, pur essendo una sola la telecamera presente sul posto, anche il tg2 e il tg3 fecero saltare i programmi previsti per quella giornata e decisero di seguire in diretta ciò che stava succedendo a Vermicino.

Dalle ore 14 del giorno 11 giugno fino alle 6 del mattino del giorno 13 giugno, per 36 ore, 25 milioni di persone rimasero incollate al televisore con il fiato sospeso, coinvolte emotivamente in quel tentativo di salvataggio di Alfredino, così si chiamava quel bambino, partecipando a distanza all’angoscia dei genitori e a quella dei soccorritori che avevano deciso di scavare un pozzo parallelo per cercare di raggiungerlo.

La sera del giorno 11, visto che comunque la copertura televisiva era assicurata dagli altri canali, RAIUNO tentò di riprendere la programmazione prevista dopo il tg delle 20, ma la reazione dei telespettatori fu tale che spinse il direttore generale a chiedere una immediata ripresa della diretta anche da parte nostra.

Ormai interessava solo sapere come sarebbe andata a finire a Vermicino, niente altro: nè lo scandalo della P2, appena scoperto, nè la crisi di governo appena risolta.

Ci vollero oltre 25 ore per arrivare con il pozzo parallelo a 30 metri di profondità, la stessa a cui i vigili del fuoco pensavano che si trovasse Alfredino.

Erano servite ben tre diverse perforatrici per bucare lo strato di roccia granitica che impediva di andare oltre i 24 metri.

Nel frattempo la tensione era arrivata al massimo, intorno al pozzo, nelle case degli italiani e anche nel nostro studio televisivo, da cui partiva la diretta.

Qualcuno, a mio giudizio sbagliando, aveva fatto sentire la voce disperata del bambino, raccolta da un microfono calato nel pozzo. E la curiosità morbosa provocata da questi eccessi, aveva attirato a Vermicino migliaia di persone che provocavano solo confusione. Grande confusione. E nessuno li mandava via.

Poco dopo le 10 del mattino del 12 giugno, raggiunta la profondità voluta, cominciò la scavo del tunnel di raccordo fra i due pozzi e tornò forte la speranza di salvare il bambino. In troppi davano per scontato che ormai era fatta…

Nel pomeriggio, verso le 16,30, prima che gli speleologi si calassero nel pozzo parallelo per raggiungere Alfredino attraverso quel tunnel, giunse sul posto il presidente Pertini, anche lui coinvolto emotivamente come i milioni di italiani che seguivano da casa gli eventi. Anche lui convinto che in poco tempo ormai Alfredino sarebbe stato salvato. Ma non fu così purtroppo.

Il primo degli speleologi che dal tunnel si affacciò nel pozzo dove si trovava il bambino, si rese conto che era sceso progressivamente dai 32 metri in cui si trovava all’inizio, a 60 metri di profondità, a causa delle vibrazioni provocate dalla sonda per bucare il terreno nel pozzo parallelo.

Poco dopo la mezzanotte, un volontario sardo, Angelo Licheri, sfruttando la sua magrezza si offrì di calarsi nel pozzo e raggiunse Alfredino, ma non riuscì a tirarlo su. Ci provò per 45 minuti, ben oltre il limite di sicurezza per chi lavora a testa in giù, ma alla fine dovette desistere.

Un ultimo tentativo fu fatto verso le 5 del mattino del 13 giugno da uno speleologo, Donato Caruso, ma anche lui fallì e anzi, tornato in superficie comunicò ai genitori e a Pertini, che era rimasto fino a quell’ora davanti al pozzo, che il bambino non dava più segni di vita.

Fu allora che il capo dello Stato, lasciò perdere e tornò sconsolato al Quirinale. La diretta invece andò avanti fino alle sette, poi fu interrotta. Ormai non c’era più alcuna speranza, dopo 60 ore che quel bambino si trovava in fondo al pozzo, che fosse ancora vivo.

Il Paese intero cadde in una depressione profonda, ma fu la madre di Alfredino a dare un segno di grande coraggio: poco tempo dopo la tragedia, dette vita a un centro nel nome del figlio perso, con il compito di promuovere iniziative rivolte all’infanzia, per prevenire incidenti come quello che aveva portato alla morte di Alfredino.

Ma anche con l’impegno a promuovere iniziative rivolte invece agli adulti, per un controllo più rigoroso del territorio. Il pozzo in cui era caduto il figlio infatti, era stato scavato illegalmente ed era senza alcuna protezione.

Dopo il fallimento delle operazioni di soccorso, sulla spinta del capo dello Stato, fu anche riorganizzata la protezione civile, dotandola di una struttura di coordinamento interforze più efficace.

Tra vigili del fuoco e speleologi c’era stato grande disaccordo su come procedere per cercare di salvare Alfredino, si erano compiuti errori e si era perso tempo prezioso, nonostante la buona volontà di tutti.

Devo confessare che ogni volta che ripenso a quella telecronaca, rivivo quei momenti con grande tristezza, ma anche con tanta rabbia. Non mi rassegno all’idea che non si potesse salvare Alfredino. Per giunta quando mi toccò farla, quella telecronaca, avevo un figlio della stessa età di quel bambino…

Quella diretta ininterrotta per 36 ore, contribuì certamente a sensibilizzare le istituzioni sulla urgente necessità di imparare a intervenire nelle emergenze in modo diverso, meno caotico e improvvisato. Ma ebbe anche altre conseguenze secondo me certo non esaltanti.

Da allora infatti, molti programmi televisivi popolari della mattina e del pomeriggio cominciarono a cercare e a raccontare storie di dolore, convinti che solo in quel modo si potesse attirare l’interesse del pubblico e aumentare l’ascolto. Nacque la cosiddetta ”TV del dolore”. Un modo per stimolare solo curiosità morbosa, non certo partecipazione alle sfortune degli altri, come si voleva far credere.

Per fortuna, da un pò di tempo questa abitudine sta scomparendo.

Ora, a distanza di quarant’anni, Sky ha deciso di ricostruire la tragedia di Vermicino in una miniserie che andrà in onda sul suo canale tv prossimamente.

Una scelta opportuna? Il rischio di una spettacolarizzazione del dolore c’è. E’ inutile nasconderlo.

Staremo a vedere se chi ha realizzato la fiction ne avrà tenuto conto e avrà rispettato quel limite superato il quale si può solo parlare di squallida speculazione.


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