Gianni Agnelli, la modernità del Signor FIAT

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Se fosse ancora tra noi, Gianni Agnelli avrebbe compiuto cent’anni. Se n’è andato a ottantuno, il 24 gennaio 2003, al termine di un’esistenza incredibile e ricchissima di emozioni. Com’era solito dire Enzo Biagi, l’Avvocato apparteneva alla generazione che aveva vent’anni il 10 giugno 1940, una data destinata a restare per sempre nell’immaginario collettivo, costituendo la patria morale e lo spartiacque per i ragazzi di allora. Pur essendo due persone diversissime, Biagi e l’Avvocato erano accomunati da questo punto di riferimento, dall’idem sentire di una tragedia che ha sconvolto l’Italia e il mondo, dal desiderio di rinascere dopo le macerie del fascismo e gli orrori della guerra, dall’aver attraversato da protagonisti mezzo secolo di storia italiana, intrecciando i rispettivi destini nel corso della lunga collaborazione del grande giornalista di Lizzano in Belvedere con “La Stampa”, dove, a detta di Agnelli, ed era vero, aveva frequentato la “scuola di guerra” che lo aveva reso una firma di fama internazionale.
Agnelli incarnava una certa idea di industria, una certa idea di capitalismo, una certa idea di società: aperta, liberale ma, al tempo stesso, attenta alle esigenze degli ultimi. Non è possibile dirlo, ma la sensazione è che non avrebbe mai compiuto alcune scelte dei successori, dato che per lui la FIAT era innanzitutto un orgoglio dell’Italia, un modello industriale, un punto di riferimento e una componente essenziale del nostro stare insieme. Detestava il provincialismo, in tutte le sue forme. Aveva la curiosità di scoprire, di conoscere, di incontrare: anche per questo uno come Biagi si è sempre trovato bene nel quotidiano torinese, ricordando che quando altri lo cacciavano, l’Avvocato gli ha sempre aperto le porte. Del resto, non aveva un pensiero anti, comprendeva anche le ragioni di chi la pensava all’opposto e aveva il massimo rispetto nei confronti dei sindacati, sia pur nel legittimo dissenso di opinioni e di interessi.
E poi la Juventus, l’amore di un’intera vita, la passione per cui si prese persino uno schiaffo dal padre, quando in treno salirono due signori e il giovane Gianni corse a salutare Munerati prima del Duca d’Aosta, successivamente protagonista dell’Amba Alagi. La Juventus per cui gli batteva il cuore, Boniperti, Sivori e Platini su tutti, senza dimenticare l’amore per Baggio e Del Piero, la stima per Trapattoni e l’affetto nei confronti di Marcello Lippi. La Juventus che, a suo dire, piaceva a molti perché non rappresentava una città ma un valore di cui siamo tutti innamorati: la gioventù.
Un soldato poliedrico, dunque, un uomo straordinariamente moderno, un costruttore di trame e di proposte, uno dei pochi, nel mondo industriale, a sostenere convintamente l’idea morotea del centro-sinistro e a favorire una visione inclusiva e accogliente della democrazia, senza paure e senza preclusioni.
Se ne andò stanco, affannato, disfatto per il dolore della perdita del figlio e per i gravi lutti che, fin dal ’35, anno della morte del padre, avevano squassato la famiglia più potente ma non certo più felice d’Italia. È stato un sovrano senza corona, un inventore, un protagonista globale e un uomo di visione, dagli orizzonti ampi e dalle idee spesso geniali. Ha recitato fino all’ultimo la propria parte e, infine, l’addio, la maglia della Juventus adagiata sul suo seggiolino, il capolavoro di Pinturicchio nella domenica più difficile e i cambiamenti degli ultimi anni, che l’Avvocato aveva probabilmente previsto, a cominciare dalle fusioni fra case automobilistiche per far fronte alle sfide mondiali del Ventunesimo secolo, ma che di sicuro avrebbe affrontato diversamente.
Cento anni e una storia che, in quel freddo venerdì di gennaio, si è conclusa per sempre.

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