7 Gennaio: per non dimenticare il massacro di Charlie Hebdo

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Era il 7 Gennaio del 2015 ed io ero appena sbarcato a Parigi quando mi arrivo’ una telefonata. “C’è stata una sparatoria nella redazione di Charlie Hebdo…”. Mandai un sms al mio caporedattore dell’epoca Francesco Cancellato e corsi immediatamente alla rue Nicolas Appert. Il corpo del poliziotto Ahmet giaceva ancora riverso a terra, coperto da un lenzuolo, mentre la scientifica prendeva i rilievi. Tutto il quartiere sembrava sospeso in un’atmosfera surreale, ovattata.

Nei dintorni della strada del massacro la polizia lasciava passare i giornalisti alla spicciolata. I pochi commercianti che avevano ancora la serranda alzata erano diffidenti, spaventati ed esitavano a rispondere alle domande. Dall’altra parte di boulevard Richard Lenoir, gli avventori di un bar scrollavano le spalle. Uno di loro mi parlo’ del gestore di un ristorante sushi che avrebbe visto tutto. Lo scontro a fuoco con la polizia, la bicicletta rovesciata e schiacciata dall’auto degli attentatori, il marciapiede dove il poliziotto ferito fu orrendamente giustiziato. Più vicino al luogo dell’attentato c’era un negozio di luci. All’interno un uomo basso, sulla cinquantina, inizialmente diffidente, dopo alcune esitazioni mi racconto’ ciò che aveva visto. «La macchina nera degli attentatori è passata di qui – mi disse – ho sentito esplosioni, credevo si trattasse di petardi. Ho sentito gente gridare. Poi ho riconosciuto chiaramente il rumore un’arma automatica. Mi sono nascosto subito nel retro del negozio pensando ad una rapina andata male». In poco tempo, sul luogo dell’attentato c’erano più giornalisti che abitanti del quartiere. Alcuni avevano chiuso le finestre ed abbassato nervosamente le serrande. Altri si affacciavano timidamente per poi rientrare spaventati dagli zoom e dalle telecamere piazzati come cannoni sulla strada del massacro. Vedere dei guerriglieri che sembravano usciti dall’armata del califfo Al Baghdadi sparare in pieno centro avrebbe potuto paralizzare le gambe ma anche le menti. Parigi non è la Siria, anche se forse lo è stata per alcuni minuti. Le grida inconfondibili, l’onta su Maometto lavata col sangue dei giornalisti e dei poliziotti.

Ma se all’epoca molti condannarono la barbarie, oggi il quadro è cambiato totalmente: complice una cancel generation ed una politically correctness che sta facendo più danni del terrorismo stesso, riusciamo a malapena a condannare la decapitazione di un professore di scuola per timore di offendere, in tal modo edulcorando realtà sempre più spaventose, cancellando la verità che fa del giornalismo l’arma più potente contro violenze, ideologie totalitarie, crimine e corruzione. La libertà di stampa, soprattutto quando mette a nudo le ipocrisie dei potenti o di regimi teocratici, non puo’ mai essere abbattuta a colpi di mitra. Si risponde con le parole, con gli argomenti non con i kalashnikov.

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