Il grottesco che c’è in Euripide. Baccanti al Teatro Stabile di Catania, regia di Laura Sicignano

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C’era molta attesa per queste Baccanti del Teatro Stabile di Catania, da tempo programmate e presentate al pubblico nel mese di settembre dal Direttore Laura Sicignano che ne ha curato la regia. Lo spettacolo in cartellone era in calendario per i primi di gennaio ma avrebbe avuto un’anteprima per la stampa a dicembre. Il calendario, purtroppo, è saltato, ma l’anteprima no, è andata in diretta streaming sul canale youtube del teatro.

Di certo ci aspettavamo un’interpretazione originale, anche per il ricordo dell’Antigone messa in scena dalla Sicignano nella scorsa stagione teatrale, e la curiosità era tanta anche per la scelta dell’opera, fra le più difficili e controverse di tutta la storia della tragedia greca. E le aspettative non sono andate deluse, l’originalità di certo c’è, per molte trovate della regista, per molte soluzioni, per l’intera chiave di lettura che ne ha dato partendo dall’adattamento del testo, qui reso duttile, decodificato in un modulo linguistico ampio e fluido con piccole contaminazioni da altri testi celebri e, nella citazione, appropriati, come il Carpe diem di Orazio recitato da una corifea.

Sull’ultima delle tragedie greche giunte fino a noi, l’ultima di Euripide, che Goethe ha definito “la più bella” del tragediografo di Salamina, si è concentrato un lunghissimo dibattito della critica di tutti i tempi. Si è detto che in essa il poeta, ormai anziano, sarebbe tornato alla fede, che nell’opera, per eccellenza dionisiaca, si può rintracciare una religiosità ritrovata e affermata a gran voce. Non la pensava così il grande Silvio D’Amico che affermava che in Baccanti “non c’è religiosità, c’è una superstizione feroce, dipinta con tratti così terribili (…) da suscitare ripugnanza e orrore”.

L’argomento della tragedia si riferisce all’arrivo di Dioniso e delle sue Menadi nella città di Tebe dove vuole imporre il culto bacchico. Già Erodoto aveva raccontato che questo culto era una antichissima tradizione che provocava contagi di vera e propria follia. Per questo il culto aveva sempre trovato feroci oppositori sempre finiti molto male, secondo la leggenda.

Euripide immagina che a Tebe, l’opposizione venga da Penteo, nipote di Cadmo, che fa imprigionare uno straniero giunto in città, il quale si rivela poi essere lo stesso Dioniso, figlio di Zeus e di Semele, nato dalla coscia di Zeus. L’antefatto viene narrato dallo stesso dio, novità in Euripide, che racconta che tutte le donne in cui lui ha suscitato il furore bacchico sono corse sul monte Citerone e il coro delle donne, che narra i particolari della sua nascita, e proclama beato chi si abbandona all’estasi dionisiaca.

E qui la scelta della regia è caduta su una soluzione particolare, in parte comprensibile e condivisibile: il ruolo di Dioniso è stato affidato a Manuela Ventura, in abiti “brechtiani”.  Tutta l’ambientazione, scene e costumi, richiamano contesti grotteschi da teatro degli anni Venti, il nero è il colore prevalente (nello smoking della Ventura, nel trucco delle donne, nelle divise dei soldati che tengono legato Dioniso), che si ritaglia in uno sfondo grigio-verde delle scene e delle luci soffuse.

Una donna nel ruolo maschile non è una novità delle regie moderne, nemmeno nella tragedia greca – come dimenticare la scelta di Emma Dante a Siracusa qualche anno fa con il suo Eracle donna?- e, trattandosi del dio dell’ebrezza e della libertà, in un contesto fortemente femminile, trattandosi di Euripide che ebbe della donna una considerazione massima e le restituì nella sua opera dignità e scavo psicologico, questa scelta rivela attenzione verso il testo, ma anche l’idea di immaginare il dio come una di loro, una delle Baccanti.

Ma l’impostazione da dare all’attrice, forse, avrebbe dovuto rivelare di più lo studio psicologico appena accennato. Abbiamo visto un Dioniso con voce metallica, stridula, con singhiozzi e ammiccamenti, movimenti segmentati da marionetta, che la Ventura si porta dietro da altri personaggi recentemente realizzati e che le sono rimasti addosso.

La stessa impressione la lascia l’interpretazione di Penteo (Vincenzo Pirrotta) che sembra recitare ansimando in una aritmia sincopata –cadendo nel ridicolo, decisamente fuori luogo, nella scena in cui si traveste da baccante, indossando una sottana trasparente e una parrucca – il nunzio (Silvio Laviano) che ha un compito terribile nella tragedia di Euripide, il racconto dell’orrore a cui ha assistito e i particolari degli atti mostruosi che le donne hanno compiuto sul monte, e qui sembra riferire l’accaduto come in un cinegiornale del Ventennio. Anche Egle Doria, nel ruolo di una corifea, è chiaramente riconoscibile nella sua forte femminilità e procacità affascinante, ma troppo simile ad altri ruoli da lei interpretati.

E’ come se questo Euripide fosse stato plasmato sui più importanti attori del Teatro Stabile di Catania, sulle colonne del teatro catanese ma si fosse troppo fidato di loro, senza dare una visione d’insieme, un collante davvero nuovo e unico. Esce dal coro e ci ha deliziati Filippo Luna nei panni di Tiresia. Lui, veramente tragico, autentico nell’interpretazione dei suoi vaticini, nella gestualità, nell’impostazione della voce, nella maschera del volto di un cieco che si lascia trasportare e grida “danziamo!”

Scenicamente la visione generale della Sicignano è suggestiva, in modo particolare in alcuni momenti, sul finale, con il cadavere di Penteo, che è caduto nell’inganno  infido di Dioniso ed è stato ucciso, squartato dalla stessa madre Agave, esposto nudo in  una posizione sacrale che ricorda tante crocifissioni,  e illuminato da una flebile luce, caravaggesca, mentre con voce fuori campo racconta in prima persona cosa gli è accaduto mentre, in primo piano, Agave (Alessandra Fazzino brava e composta) si muove lentamente in una pantomima che imita il gesto folle dell’uccisione del figlio, che lei crede essere un toro, fino a quando si ravvede e riconosce, infilzata sul tirso che porta in mano la testa del figlio; allora straziata dal dolore e dall’orrore compiuto si rifugerà in Cadmo (Franco Mirabella serio e profondo nel duplice dolore) e affronterà la sua disperazione nell’esodo della tragedia.

Al pianto di Agave corrisponde il trionfo di Dioniso che recita il suo monologo finale in greco, mentre si proiettano, come colonne luminose, i versi del poeta nella sua lingua originale e mentre prende piano piano il via l’ultimo rito orgiastico in una danza psichedelica con suoni di tamburi e tamburelli, suonati dal vivo (pregio assoluto di questa rappresentazione le musiche originali composte da Edmondo Romano), mentre i corpi danzanti si trasformano in figure gigantesche proiettate come ombre sulla scena (luci a cura di Gaetano La Mela) e intanto il dio declama “Io sono Dioniso!”

Il razionalismo di Euripide lo portava non a credere ma a cercare di capire, il clima delle sue tragedie non è quello degli eroi di Eschilo o della disperazione di Sofocle, egli rappresenta la “normalità” di uomini e donne nella loro media umanità e nell’eterno conflitto fra ragione e passione che nelle Baccanti è la cifra di tutta la vicenda.

Il tragico e il realistico si incontrano nel poeta greco, a volte – per esempio nel Ciclope – si mescolano, a volte sfumano uno nell’altro disorientando lo spettatore. Euripide, come Pirandello che lo amava e lo aveva tradotto, ha rivelato che i due aspetti coincidono, che spirito apollineo e spirito dionisiaco sono nell’uomo e nella storia.

Nella più difficile di tutte le tragedie, nelle Baccanti, questa complessa e misteriosa verità esplode, letteralmente. La lettura, a metà tra visione borghese e grottesca, del Teatro Stabile di Catania, ha delineato alcuni contorni lucidamente, ne ha mascherati altri, esaltando il grottesco che Euripide aveva suggerito.


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