I MESTIERI DEL CINEMA – FELLINI E LA SCENOGRAFIA. LA RIMINI IMMAGINARIA

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Fellini conobbe il battesimo nel Teatro 5 di Cinecittà grazie al produttore napoletano de La Dolce vita Peppino Amato (all’anagrafe Giuseppe Vasaturo), rimasto più famoso per le sue uscite in un italiano fiorito e imperscrutabile; per lui Fellini era “una pietra emiliana”, e assicurava che intorno al film che il regista stava girando c’era “un’attesa sporadica!”. Ma anche che “tutti si stavano alcolizzandosi contro di lui” e certi suoi avversari “si picchiavano che sembravano due argonauti” (energumeni, traduceva Ennio Flaiano).

Considerate le difficoltà quasi insormontabili che la produzione stava incontrando per realizzare le riprese dal vero in Via Veneto, Amato, che si era intanto consorziato con Angelo Rizzoli, si convinse che sarebbe stato assai meno costoso ricostruire la strada in teatro di posa. Federico non si lasciò sfuggire l’occasione e mise all’opera Piero Gherardi, il quale allestì da par suo quel tratto di strada che avrebbe fatto sognare il mondo.

Ma prima di quella data, Federico sceglieva le ambientazioni dei film tramite reiterati e attenti sopralluoghi in compagnia del fedele scenografo, che gli era accanto fin da La strada ed era esperto ancor più di lui di ogni anfratto viterbese.

Il regista, nei primi inquieti anni di apprendistato, appena entrò in possesso di un’auto propria iniziò a esplorare i dintorni di Roma risalendo preferibilmente la via Cassia che giudicava “la strada più bella del mondo”. Gli esterni de I Vitelloni furono girati quasi interamente a Viterbo, a parte una trasferta in Toscana per ragioni logistiche: Alberto Sordi era impegnato in tournée a Firenze insieme a Wanda Osiris nella rivista Gran Baraonda, e pertanto la troupe fu costretta ad adattarsi: il teatro Politeama in cui si svolge il ballo in maschera del Carnevale riminese, fu realizzato nel capoluogo toscano utilizzando il Teatro Goldoni “chiuso per inagibilità e pieno di topi”.

Nel viterbese Federico aveva realizzato anche moltissime sequenze di La Strada. Cosicché al tempo della Fondazione Fellini, per celebrare un’importante ricorrenza di quel capolavoro, pensammo persino a un gemellaggio con la Tuscia, intitolando l’evento “La Strada della Memoria”.

Mi recai a Viterbo e a Civita Bagnoregio, a visitare i luoghi dei set felliniani da I Vitelloni fino a Le Notti di Cabiria; in seguito scrupolosamente inventariati, in un libro dell’editore Armando Armando, da Moraldo Rossi, il primo, assistente, aiuto, factotum, alter ego ed eteronimo del regista dai tempi della bohème romana.

In un articolo apparso su Epoca il 23 agosto 1952, sotto il titolo La mia avventura fantastica a Viterbo, Fellini racconta:

In una di queste scorribande mi imbattei in Viterbo, che per me significava il ritorno alla provincia: le sue strade con la gente che cammina nell’aria assopita, anche quando c’è ombra, quell’aperto oziare che non è mai vuoto, sempre pieno di echi dolcissimi, e quel senso della città antichissima, borghese e aristocratica, così misteriosamente italiana…

L’area dell’alto Lazio costituiva per Federico lo scenario prediletto, collegato per vie misteriose alla Rimini della sua infanzia: quel “borgo” che in seguito, in Amarcord, riedificò nel backlot, cioè nello spazio all’aperto di Cinecittà, in modo che potesse risultare più fedele possibile ai suoi ricordi.

Rimini durante l’ultima guerra mondiale era stata pressoché rasa al suolo dai bombardamenti, e la fisionomia della città ne era risultata stravolta, irriconoscibile; di fatto inutilizzabile per ambientarci riprese fedeli all’originale. Senza considerare che negli anni Settanta Federico ormai da tempo non metteva quasi più piede fuori degli studi cinematografici, persuaso, a ragione, che in arte l’unica verità sia riproducibile soltanto attraverso una abilissima finzione.

Non poche sequenze dei Vitelloni, della Strada, del Bidone, delle Notti di Cabiria furono girate in quelle contrade, nei paesi in cui il regista con spirito rabdomantico, aveva girovagato apparentemente senza uno scopo preciso, ma fissando angolo dopo angolo i futuri scenari dei suoi film: Ronciglione, Bagnoregio, Canino, Tuscania, Bassano Romano, Caprarola.

A Civita Bagnoregio ebbi la buona sorte di imbattermi nel meccanico che mise insieme il motofurgone di Zampanò. Si chiamava Ugo Trucca (c’è pur sempre un destino nel nome), aveva allora circa ottanta anni, e mi raccontò con lucida profusione di particolari quando Fellini si recò nella sua officina per descrivergli il veicolo che avrebbe voluto utilizzare nel film. E di come pretese alla fine che sui lati della tela cerata del cassone fossero dipinte due sirene; alle quali pose mano lo scenografo Piero Gherardi, prezioso complice di ogni capriccio creativo.

Trucca dopo il passaggio del fronte aveva trovato in fondo a un terrapieno la carcassa di una motocicletta Norton, inglese. Il motore era ancora efficiente, ma il telaio quasi inservibile; mancavano le ruote e gran parte degli accessori. La recuperò, la adattò a un carro e la risistemò a puntino per le esigenze dell’artista. Il quale ne rimase entusiasta e volle che Trucca, reduce da fresche nozze, partecipasse anche alle riprese insieme a sua moglie Nevina, scritturati entrambi come generici nella festa di matrimonio sull’aia, dove insieme interpretano appunto la parte degli sposi.

Con Ugo Trucca ci incontrammo sulla piazza del paese, dove è possibile ritrovare ancora intatto lo sfondo della sequenza mozzafiato in cui il Matto compie il suo esercizio di funambolismo su una fune tesa da un palazzo all’altro, a venti metri d’altezza. Un acrobata del circo, scritturato come controfigura dell’attore americano Richard Basehart, imbandisce addirittura una spaghettata con tanto di tavolo e sedia in equilibrio sul filo, inquadrato dal fascio di luce del fanale orientabile di una Balilla, sotto lo sguardo stupefatto e già adorante di Gelsomina.

Trascinato dall’entusiasmo, avevo proposto in quella circostanza di innalzare sulla piazza un monumento a Zampanò e invitare a inaugurarlo Anthony Quinn in persona, allora ancora in vita (si spense due anni dopo, il 3 giugno del 2001). Sarebbe stato un omaggio al film di intensa suggestione, magari comprendendo in un unico gruppo scultoreo anche gli altri due protagonisti della storia, Gelsomina e il Matto.

Le idee fluirono inarrestabili. Già si parlava di un museo cittadino che radunasse tutti i reperti del film. Si mormorava che da qualche parte era forse reperibile la Balilla del Matto, che nella storia cinematografica va a fuoco durante la tragica scena in cui Zampanò, dopo aver ucciso il Matto con un pugno micidiale, spinge l’auto nella scarpata.

Il Teatro alla Scala di Milano, dove avevo diretto la versione televisiva del balletto, acconsentiva a concedere il motofurgone ricreato da Luciano Damiani per l’allestimento. Per costruire un omaggio degno dell’opera insignita con il Premio Oscar, si progettavano manifestazioni di ogni tipo, la retrospettiva dei film, un arredo urbano immaginifico, mostre fotografiche, rappresentazioni teatrali, concerti, spettacoli circensi, esibizioni di artisti di strada, convegni di studio; una dovizia di iniziative disseminate in tutto il comprensorio. E infine c’era la sorpresa finale a cui più tenevo: distribuire alla folla dei visitatori una maglietta con sopra scritto SIAMO TUTTI ZAMPANO’, il sigillo di una rivelazione poetica a cui nessuna creatura di sesso maschile avrebbe saputo sottrarsi.

Il programma non ha perso il suo fascino, anzi tornerebbe di esuberante attualità nel Centenario di Fellini che tende ormai naturalmente a congiungersi con il Centenario di Giulietta Masina in scadenza il prossimo anno.

A Viterbo – vagheggiava Fellini – ci sono le fontane, i vecchi alberghi con dentro le luci accese, nell’ombra, anche di giorno (una frescura meravigliosa d’estate) e le campane che battono come se suonassero dentro casa: tre cose che mi hanno sempre dato angoscia, ma anche dolcezza: come se si mescolassero più intimamente a tutti gli echi che mi porto dentro. E che cosa si può desiderare di più da una città, che altro motivo si deve avere per amarla profondamente?”

E l’amico Moraldo, quasi in controcanto, annotava nel suo libro:

“Federico aveva una passione un po’ morbosa per la via Cassia, che rivelava una parte quasi femminile della sua sensibilità. Si può dire che per Fellini la scenografia più che una scelta dei posti era l’atmosfera stessa in cui calare la favola che aveva bisogno di raccontare.”

Ecco la risposta per quanti, a distanza di quasi mezzo secolo dalla realizzazione di Amarcord, ancora si domandano, mugugnando, perché Fellini non abbia mai girato neppure un metro di pellicola nella città natale. Non se lo spiegano, non glielo perdonano, scorgendo un affronto in quella intenzionale esclusione. Anzi continuano a disquisire sui tradimenti perpetrati dal regista, perché quell’angolo non era esattamente così, quel palazzo era più alto o più basso, le vetrine avevano scritte diverse, il Grand Hotel non se ne parla neppure… Senza voler ammettere che Rimini, in tutto il mondo, è la città raccontata da Fellini e non può essere altro. Così come Amarcord non è un rievocazione biografica dell’autore ma un sogno inventato, fatto entrare con infinita delicatezza e perizia dentro l’unica cornice in grado di raccoglierne universalmente l’aspetto e l’anima. Un dipinto, un mosaico, un affresco, un cartone preparatorio, che nulla ha a che vedere con la realtà fattuale. Né i contestatori si accorgono che, proprio insistendo nei continui confronti, hanno già accettato l’esistenza di una seconda Rimini anche nella propria percezione; ed ora è l’unica che rimane anche per loro, poiché l’altra, quella a cui sono tanto legati, nessuno l’ha cantata. Non se ne ha notizia. La Guerra di Troia esiste esclusivamente grazie all’Iliade, agli esametri di Omero: “Cantami o diva del Pelide Achille l’ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei…”

In un libro su Fellini e Fano di cui ci siamo già occupati, viene ‘identificata’ la cittadina marchigiana quale possibile surrogato di Rimini nella fantasia del regista; l’autrice si premura di misurare al bilancino quanto di Fano sia presente nei film di Fellini, domandandosi cosa sarebbe accaduto se Federico avesse veramente girato a Fano le sequenze riminesi del film mai realizzato “Viaggio con Anita”.

Sono supposizioni stimolanti per aiutarci a capire quanto Fellini continui ancora ad emettere radiazioni artistiche, e talmente abbaglianti da creare scenari inesistenti. Nei film di Fellini non c’è Fano, come non c’è Rimini, come non c’è Viterbo o Civita Bagnoregio; ci sono soltanto fondali che raccolgono una verità parallela, mentale, e possiedono l’imprendibilità del sogno.

Esattamente come la laguna di Venezia in Casanova, o il Mar Egeo in E la Nave va, o di nuovo l’immortale Via Veneto di La dolce vita.

La Via Veneto di Federico non è l’elegante arteria alberata, bordeggiata da alberghi sontuosi, che da Porta Pinciana scende in agili curve fino a Piazza Barberini; ma quel segmento di strada prospiciente l’Hotel Excelsior che lo scenografo Piero Gherardi ha ricostruito in gesso e cartapesta al Teatro 5 di Cinecittà. Con estrema accuratezza ma anche con disinvolte licenze poetiche, riportando per esempio in piano una strada in salita. Eppure quella sintesi figurativa della più famosa via di Roma ha imprigionato ormai per virtù illusionistica l’invisibile spirito che la abita, il genio della lampada. Non esisteva altro modo per un artista visionario come Fellini di raccontare l’irraccontabile.

La celebre arteria romana avrebbe potuto essere un’altra? E un’altra ancora? Certo, ed è lui stesso a confidarcelo:

Nella sceneggiatura de La Strada c’era una sequenza che poi non ho girato e che esprimeva questo rapporto personalissimo con Via Veneto. Arrivando dal Pincio la motocicletta di Zampanò scendeva fra sibili e scoppi nella notte la discesa di via Veneto; dall’interno, attraverso il telone semiaperto e svolazzante, Gelsomina osservava con gli occhi tondi le luci, le insegne luminose, le palme, i caffè. Poi si riaddormentava per svegliarsi la mattina in un prataccio, con il cupolone lontano sullo sfondo, nella Roma degli zingari”.

(fine prima puntata)

 


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