Cesare Romiti, l’avversario galantuomo 

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Cesare Romiti è stato sulla plancia di comando della FIAT in anni terribili. Il finire degli anni Settanta, con la crisi internazionali dell’automobile e la violenza terroristica dilagante in Italia. L’inizio degli anni Ottanta, con la progressiva dissoluzione di partiti e corpi intermedi e l’inesorabile disgregarsi del nostro vivere civile, anche per via di una politica incapace di riformarsi, dissennatamente edonista e intenta a scaricare sulle istituzioni i propri limiti strutturali. E poi la stagione a cavallo fra il prima e il dopo l’abbattimento del Muro di Berlino, con la fine del “Secolo breve” e un rivolgimento mondiale di proporzioni inimmaginabili fino a quel momento.
Temporalmente parlando, dunque, Romiti è stato un uomo di frontiera. A livello di politica industriale è stato, invece più attento di quanto alcuni non pensino al valore degli equilibri. Capitalista al midollo, cinico al punto giusto, talvolta anche oltre, duro ma sempre rispettoso degli avversari, apparteneva alla vecchia scuola manageriale italiana, convinta di dover prevalere ma non stravincere sulla classe operaia, in quanto la tenuta sociale della comunità veniva sempre prima dei propri interessi e delle ambizioni personali o di categoria.

Vinse nei giorni strazianti di Mirafiori, quando i cancelli della FIAT divennero uno snodo politico fondamentale, e domò la rivolta operaia attraverso la rivolta dei quadri, nota come “Marcia dei quarantamila”, che in ottobre comportò una sconfitta decisiva per la sinistra e per il sindacato, rendendo plastica l’immagine della consunzione di un’epoca. Eppure, benché sarei stato dall’altra parte, con Berlinguer e la battaglia dei metalmeccanici in lotta contro i licenziamenti prima e la cassa integrazione a zero ore poi, devo riconoscere a Romiti di aver gestito quel conflitto con rara intelligenza. Difese, com’era ovvio che fosse, le proprie posizioni e il proprio punto di vista ma non rinunciò mai al dialogo con la controparte, non mise gli operai l’uno contro l’altro, non tentò di dividere il sindacato come purtroppo avvenne nei giorni del referendum del 2011 e, soprattutto, difese costantemente l’italianità del marchio FIAT, ben cosciente di cosa rappresentasse per il Paese nel suo insieme
Al pari di Cuccia, suo grande estimatore, Romiti sapeva, infatti, che perché le azioni si possano pesare, i voti si devono contare, mantenendo pertanto un rapporto di ascolto e partecipazione, sia pur defilata, alle vicende politiche e non lesinando mai attenzione nei confronti del PCI.

Seppe usare il pugno di ferro ma non portò mai la contesa alle estreme conseguenze, non perse la calma, non si scompose neanche quando il terrorismo si fece davvero minacioso, fino a mettere a repentaglio la stabilità interna della FIAT, costringendo il segretario della CGIL Lama a ricordare ai lavoratori più facinorosi che anche i capi erano operai.
Era senz’altro un uomo d’altri tempi, con poco o nulla in comune con il rampantismo sucessivo, con lo yuppismo dei parvenu, con la faciloneria degli improvvisati, con la pochezza degli ignoranti, con il provincialismo ammantato di internazionalismo di chi fatica a comprendere il ruolo di un’azienda come la FIAT all’interno della società italiana.
Romiti e Agnelli hanno lavorato fianco a fianco per un quarto di secolo senza mai darsi del tu: ognuno al proprio posto, ognuno nel proprio ruolo, con un rispetto quasi militaresco della propria funzione.
Romiti è stato, in poche parole, un soldato del capitalismo italiano, privo dell’inventiva di Olivetti ma assai diverso, per stile e contenuti, dal rigidissimo Valletta (cui alcuni osservatori lo hanno erroneamente accostato), anche perché interprete di un’altra stagione, di una fase storica, è bene ricordarlo, in cui era stato da poco varato lo Statuto dei lavoratori, con il rafforzamento delle garanzie collettive attraverso l’introduzione dell’articolo 18.
Di quella lotta onesta, ingenua, moralmente ineccepibile e complessivamente disperata ci rimane l’esempio di un popolo ancora in grado di unirsi, e di quel popolo Berlinguer era il rappresentante, il simbolo, il punto di riferimento.
Di Romiti ci rimane l’immagine di uno stratega, di uno scachista abilissimo a dare lo scacco matto al momento opportuno, con la freddezza di un giocatore che aveva studiato attentamente i rivali fino a comprenderne i punti deboli.
Se fosse possibile intervistarlo, alla luce di ciò he è accaduto nei quarant’anni successivi alla sua vittoria, vorrei chiedergli se la ritenga davvero tale, avendo costituito la dissoluzione di tutti gli equilibri, ossia la nemesi storica per un uomo che dell’equilibrio aveva fatto la sua ragione di vita.

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