Dire Dio in un mondo distratto

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di Giampiero Comolli. Scrittore e giornalista

Mentre leggevo l’importante e coinvolgente libro di Sabina Baral e Alberto Corsani, dedicato ai “credenti in bilico”, alle difficoltà di vivere e testimoniare «la fede di fronte alle fratture dell’esistenza», mi è tornato in mente uno strano episodio in cui ero stato coinvolto ormai diversi anni fa. Mi trovavo a cena in casa di amici: tutte persone colte (docenti universitari, critici d’arte), tutte persone non credenti ma, diciamo così, genericamente sensibili alle questioni religiose. E a un tratto mi capitò di narrare a questo piacevole consesso la storia (riportata in Neemia 8) del sacerdote Esdra che, sulla pubblica piazza, utilizzando un umile, improvvisato  “palco di legno” proclama e spiega “il libro della legge di Mosè” di fronte al popolo ssconvolto e in pianto, fra le rovine di Gerusalemme, non ancora ricostruita dopo il ritorno dell’esilio babilonese. Mentre andavo dunque narrando a questi buoni amici e amiche tale poco conosciuta ma cruciale vicenda biblica, ecco che si diffuse tra i presenti uno sbalordimento e un incanto del tutto inusitati. Nessuno aveva mai saputo nulla di una simile storia, nessuno aveva mai sospettato che la Bibbia potesse contenere racconti così commoventi e misteriosi.  Era sceso in sala una sorta di silenzio sacro, come se fossimo all’inizio di un tempo nuovo, un tempo salvifico in cui la Parola vivente di Dio stava ricominciando a circolare fra di noi e avrebbe da quel momento ripreso a trasformare, a convertire le nostre vite… Ma una simile svolta non ci fu. Terminato il mio racconto, dopo qualche breve e pensoso commento da parte degli astanti, tutto si riassestò come prima, nella piacevole, svagata, mondana noncuranza tipica dei nostri giorni. E nemmeno le volte successive, rivedendo ora l’uno ora l’altra di questi simpatici amici, nessuno mai mi disse: «Parlaci ancora di Dio, raccontaci ancora le storie della Bibbia». Per quanto io fossi ovviamente disponibile, l’occasione “magica” di quella sera non si ripresentò mai più.  Ma perché?

Quali sono le cause di questa nostra persistente, diffusa afasia nel dire la fede, nel parlare delle cose di Dio? Ebbene, il libro dei nostri due autori descrive con grande lucidità e con ammirevole franchezza lo scenario spirituale del nostro tempo in cui «balbettiamo quando si tratta di spiegare al nostro vicino di casa in cosa consiste la nostra fede». Sabina Baral e Alberto Corsani s’interrogano con forza sui motivi per cui «ci sentiamo orgogliosi della nostra chiesa e del suo agire sociale, ma al contempo siamo titubanti nel dire che a muoverci è l’Evangelo». E denunciano di conseguenza questo nostro confuso silenzio su Dio: «Così le chiese e i singoli  credenti sono in grado di leggere i bisogni immediati dei loro contemporanei (e ce ne sono tanti), ma sono incerti di fronte ai bisogni spirituali di questi ultimi». Una simile questione è talmente complessa, radicale e di difficile scioglimento che i due autori, dopo aver messo a fuoco questa sfida dirimente per i credenti e per le chiese, decidono, senza alcuna dissimulazione o minimizzazione, di coinvolgere altri interlocutori: teologi e teologhe, psicoanalisti, scrittori, saggiste, poetesse, di area cattolica, protestante, ebraica, credenti e non credenti: Eraldo Affinati, Bruno Forte, Gianni Genre, Michel Kocher, Vivian Lamarque, Stefano Levi Della Torre, Bruna Peyrot, Massimo Recalcati,  Elisabetta Ribet. Con ognuno e ognuna di loro Baral e Corsani, mettendosi direttamente in gioco, intrecciano un dialogo profondo e fecondo, tale per cui i singoli interpellati possano esporre le loro più personali riflessioni non in solitudine ma attraverso la sollecitazione di incalzanti domande. Di conseguenza questo non è – come potrebbe a prima vista sembrare – un libro a interviste, o una tavola rotonda, ma una sinfonia di voci che, ciascuna con il proprio timbro e la propria tonalità, si unisce alle altre per discutere quale possano essere le proposte, i linguaggi della fede e delle chiese in un mondo dove non solo c’è poca o nulla disponibilità a riflettere sulla questione di Dio, ma gli stessi credenti o istituzioni religiose sono in affanno, borbottano o al contrario alzano troppo la voce, quando devono annunciare il senso del credere, la via della salvezza. Sia chiaro, dal libro non emerge una soluzione a portata di mano, un radicale cambiamento di prospettiva. Il problema è troppo vasto e complesso perché si possa trovare con agio e presto un via d’uscita. Ma i due autori, e le persone da loro interpellate, non ci lasciano semplicemente a metà via. Piuttosto ci insegnano a far tesoro proprio di questa condizione di incertezza teologica e fragilità spirituale, che non è poi così paralizzante come potrebbe sembrare. Infatti, è proprio nella provvisorietà, nel chiaroscuro, nelle penombre, che si delineano – se li sappiamo cogliere – nuovi, inattesi interstizi liberatori, inedite opportunità per aprirsi all’ascolto profondo di sé, degli altri e dell’alterità di Dio. Un libro insomma con cui a nostra volta dialogare cui far tesoro, prezioso chi legge in solitudine, ma anche utile alle comunità di fede. Un libro insomma per reimparare ad ascoltare, tra le pieghe confuse o minacciose della contemporaneità,  «il progetto più grande che Dio ha per noi».

Da confronti

 

 

 


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