Lettera a Jacques Lacan nel giorno del suo compleanno

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La quarantena sta volgendo al termine ed è un bene, anche se ogni volta che vediamo scritto The end sullo schermo ci chiediamo che senso abbia quel sostantivo.
Le tribolazioni non hanno mai fine, bastava leggere i dati giornalieri dei contagiati e dei decessi in Italia e nel mondo per non perdere di vista questa verità.  Una verità di cui invece la Chiesa ha memoria, tanto più il Venerdì Santo. Quel drappo rosso che copriva il Crocifisso davanti alla Basilica di San Pietro, con il Papa genuflesso, non copriva un corpo martoriato, ne esaltava le ferite.
I tempi che viviamo non sono tuttavia né migliori né peggiori di altri. Una società umana è sempre stata una follia, nei cui confronti si può reagire più o meno bene. Ieri sera ero maldisposto, tanto da impormi di sfogliare un libretto che non ricordavo di avere letto, per poi accorgermi che invece sì, l’avevo letto perché c’erano dei passaggi sottolineati: Jacques Lacan, Mon einsegnement, edito da Seil. Mi sono affrettato a leggere perché quando si tratta di Lacan, lo si accosta neanche fosse la Bibbia. Del resto, lui, Jacques, avrebbe voluto consegnare una copia degli Scritti al Papa, il quale si è guardato bene dall’accettare il dono.
Mi sono trovato, quindi, nel giro di qualche minuto, nella condizione di dover optare per due Rivelazioni e mi sono orientato in modo pilatesco, un occhio sul teleschermo, due sul libretto.
A pagina 26 del “breviario” – è giusto chiamarlo così – leggo:

“Uno dei miei allievi mi ha detto un giorno – ma era ubriaco, cosa che gli capitava ogni tanto – che ci sono nella vita delle cose che ci mettono in croce, che io ero un tipo assimilabile a Gesù Cristo. Mi stava prendendo per i fondelli, evidentemente. Io non ho alcun rapporto con questa incarnazione. Somiglio semmai a Ponzio Pilato.”
Ero preso tra due fuochi! “Ponzio Pilato,” prosegue Lacan, “non ha avuto la fortuna dalla sua. Ha detto una cosa molto facile da dire – Cos’è la verità? – ma non è stato fortunato: ha fatto questa domanda alla Verità stessa.”
Avevo ancora negli occhi il film su Gesù di Zeffirelli, trasmesso su Rai Storia: Rod Steiger, nei panni di Ponzio Pilato, chiede a Gesù, un altro attore americano o inglese, che aveva una faccia plausibile benché allampanata: “Cos’è la verità? Me lo dici?”
Scioccamente, mentre guardavo la scena, mi aspettavo una risposta da Gesù – ci si aspetta sempre una qualche risposta – ma Lui è rimasto muto come un pesce. Chi pone simili domande di solito va in cerca di guai e finisce che non si fa una gran reputazione.
Io, per esempio, sia pure nel mio cerchio infinitesimale, con ben altro tatto e con altri modi, in questi giorni ho avuto la dabbenaggine di porre indirettamente qualche domanda ai miei amici lacaniani. Li ho tormentati con i miei scritti, sfacciatamente. Non sono molti, a dire il vero, gli amici, e sono tutti molto affabili quando ci incontriamo. In fondo sono un opossum di prima generazione. Ma quando è ora di far segno, come si fa in amore, che notoriamente ha bisogno addirittura di una segnaletica, tutti muti, salvo due o tre.
Quindi più che con Ponzio Pilato è con Giuda che mi si identifica. Ma c’è per fortuna il film di Zeffirelli, che mi viene in soccorso: non era male il regista fiorentino. Giuda, per come lo presenta, sembra un brav’uomo. Trenta denari, lira in più lira in meno, corrisponderebbero a trenta euro. Non ci si vende per così poco. La polizia sapeva dove trovare Gesù, non aveva bisogno di una soffiata.
Chi è dunque Giuda? È, dice Borges, colui che dà una mano affinché il destino di Cristo, ciò verso cui Lui tende, si compia. Non lo tradisce, gli dà una mano. Sa che la Resurrezione è finalmente alle porte.
Il mio percorso non contempla solo Lacan ci sono altri maestri, una donna in particolare, Gisela Pankow, la quale credeva eccome nell’incarnazione. Non ne faceva un dogma, ma una linea di partenza ineludibile, se si vuole capire qualcosa alla follia e, quindi, all’uomo.
I malati di mente sono persone che per qualche ragione non si sono incarnate, amava dire. Il verbo “personare”, cioè la Voce dell’Altro, risuona male nelle loro teste. Le identificazioni canoniche lacaniane sono, per così dire, stratificate su questa, ancora più basica. Il concetto di “forclusione” è sacrosanto, ma non spiega tutto. Ciò che è precluso nel simbolico riappare nel reale, è questa la formula lacaniana per antonomasia. Ebbene, non c’è solo questo indirizzo teorico, c’è dell’altro, e perché non dirlo? Se lo si dice non si tradisce nessuno, tantomeno Lacan, che avrebbe voluto solo dei Giuda accanto. Senza esagerare, naturalmente.
Lacan amava molto Claudel, notoriamente un autore con forti radici cattoliche, il quale aveva scritto pagine geniali su Ponzio Pilato. Proprio per aver posto la questione della verità alla Persona sbagliata, se si trovava di fronte a un idolo, dalla fessura che questo recava sulla pancia si accorgeva che era solo un salvadanaio.
“È quel che mi succede ogniqualvolta ho a che fare con degli idoli psicoanalitici,” chiosa Lacan, per poi ritornare sul tema della verità.
Senza aver bisogno di citarlo, dico subito che diffido di questa parola. Io tifo per la verosimiglianza. Non avrei mai potuto scrivere racconti ocra se così non fosse. Non è un titolo di merito, forse è più un demerito, ma è così. Non è un caso che fossi perplesso ieri sera di fronte alle immagini che le onde magnetiche diffondevano da Piazza San Pietro. Non arrivavo fino al punto di guardare e riguardare inebetito le mie mani, ma confesso che certi aggettivi, come perplesso, fatuo, incongruo, bizzarro mi sono simpatici. Una ragione ci deve essere: la verità non avrebbe alcun senso senza di loro. Evidentemente la rincorro per vie traverse, cosa che faceva la psicoanalisi, quella buona, quella delle origini. Ma non è colpa di nessuno. Quando si ripete sempre la stessa cosa, i concetti ripetuti diventano coscienza comune, bisogna cambiare strada. Il vero è sempre nuovo e forse per questo Fellini non voleva riguardare i suoi film, volendo andare oltre e pensare a quello nuovo da realizzare. Ci sono delle verità sedimentate fin troppo.
Ai tempi di Freud, in epoca Vittoriana, mettere l’accento sulla vita sessuale fece scandalo. Oggi non più. Oggi “ça visse exuelle” che non vuole dire niente se non che la vita sessuale oggi è dappertutto, evaporata anch’essa, forse ancor più della figura paterna.
Infatti, quando il direttore di un quotidiano cattolico deve aver intuito, vedendo il mio curriculum, che non sono troppo affidabile perché per me la cosiddetta vita sessuale rimane al centro della Cosa, quando cioè deve aver capito che la verità la intravedo più da quelle parti, non ha risposto e non ha ospitato altri piccoli resoconti ocra che non erano poi così male in queste giornate così strane, quasi diaboliche. Si rierge un muro. Che si tratti di piccoli o grandi ècrits, chi li ha scritti li tiene per sé e si guarda l’ombelico.
Dov’è allora la verità?
Si può dialogare, questo sì! Ma, a conti fatti, è davvero un dialogo? O si deve andare in Processione?
Forse il “dialogal” c’è, come dice Jean Oury, un bisbiglio ipnagogico, quello non lo si rifiuta a nessuno, magari nel confessionale, ma oltre non si va, se si picchia duro, come faceva Fellini, a modo suo, junghianamente, ma con tutti i turbamenti che la vita comporta, alle radici, da stramazzare al suolo, allora bisogna fermarsi, non subito, un attimo prima, prima che la cosa si faccia troppo seria. Oggi si sente parlare assai poco di sessualità; “ça visse exuelle” scivola via e infatti il sesso, quello tosto, come raccontavo ieri, riappare in forma oscena attraverso dei video terribilmente crudi mescolati ai buoni sentimenti. Più buoni e più porci! Porci, non porcaccioni! Porcaccioni lo si era quando la sessualità aveva un peso. Oggi è sugli scudi la castità, la pornografia non inganni, almeno per quel che riguarda, già nel design, l’aspetto delle riviste psicoanalitiche.
Io chiesi a Borla, quando pubblicai un paio di libri, d’imbrattare la copertina con dei miei quadri piuttosto brutti. Sono più belle le copertine tradizionali ma si sentiva un po’ di odore, di afrore nel portare avanti un discorso, c’era dentro e c’era fuori, si sentiva dentro e si odorava fuori.
Ci si occupa molto più volentieri di questioni morali e di istinti di vita.
Dell’istinto di morte, la petit mort, di cui si gode ogni volta che si copula, se ne parla malvolentieri. È una copula, per l’appunto, somiglia a quella che mi fu chiesta in quinta elementare, lo ricordo ancora. Il maestro, all’esame – perché era un esame a tutti gli effetti – mi chiese: “Cos’è la copula?” Risposi correttamente, forse perché non copulavo ancora. Si fa della grammatologia, come faceva Derrida, il quale, a dire di Lacan, l’avrebbe inventata lui una certa grammatologia.
Ma anche lui, Lacan, ci ha messo del suo, e quando se n’è accorto ha inventato “lalangue” tutto attaccato, che sa di lingua anche in senso muscolare, perché la lingua è anche un muscolo, non solo grammatica. Roba da porcaccioni in un terreno tanto concreto quanto vago, perché è tutto lì, anche se ci si capisce poco. Ci si razzola, come una delle mie cinque galline sta facendo davanti ai miei occhi. Potrei farlo anch’io, potremmo farlo tutti, e infatti per tranquillizzarci aspettiamo la Resurrezione.


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