Sapeva scrivere, sapeva guardare, sapeva ascoltare

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Gianni Mura è morto il giorno dopo l’arrivo di questa strana primavera, a 74 anni.

Il cuore si è fermato non nella sua Milano, che sta conoscendo ore complicate e in cui è difficile pure vivere morire e avere un funerale, ma in riva al mare, a Senigallia – la città di una sua grande amica prima che grande collega, Emanuela Audisio – dove diceva di essere “venuto in ritiro, a respirare aria buona in vista del Tour”. Che chissà, poi, se mai ci sarà, il Tour.

E chissà se gli sarebbe piaciuta, questa Samarcanda marchigiana, dove la morte l’ha raggiunto. La provincia, le provincie, le storie piccole e le piccole storie, di sicuro le amava.

Nell’unica classifica che dipende “solo” da me, non hanno mai contato qualifiche, curriculum, potere e gradi. Ho sempre diviso i colleghi giornalisti in due sole categorie, semplci: in una i pochi dei quali ritagliavo (ma, da ragazzo, riscrivevo parola per parola con la macchina da scrivere, oggi copio e incollo) gli articoli, nell’altra… tutti gli altri.

Gianni Mura era maglia gialla nel primo gruppo e la sua cartellina è bella voluminosa.

Penso di aver saltato poche volte la sua rubrica “Sette giorni di cattivi pensieri”, o forse mai, come è più probabile.

Giornalista sportivo per modo di dire, visto che nei suoi pezzi, come in un saporito minestrone – la gastronomia d’altronde era un’altra delle sue grandi passioni – ribolliva e veniva a galla di tutto: politica, società, cultura. Soprattutto, cultura.

Sapeva scrivere, sapeva guardare, sapeva ascoltare. Non più di tutti – questo non lo so – ma sapeva collegare cose, fatti e persone. Sapeva far pensare il lettore, che è il fine ultimo del giornalismo.

Non lo conoscevo personalmente, ma un paio di piccoli aneddoti ce l’ho e non posso che condividerli.

Un giorno lessi una puntata dell’altra sua storica rubrica (“Mangia e bevi”, che insieme alla moglie Paola pubblicava sul ed ogni “Venerdì”), in cui raccontava della visita ad un piccolissimo locale gestito da due sorelle, alle Balze del Valdarno, vicino Arezzo. Non arrivava “già mangiato” o  con l’annuncio delle fanfare. Andava, pagava, ringraziava, salutava e, giorni dopo, scriveva. Una rarità, insomma. Controcorrente.

Una volta, a pranzo, trovandomi nei paraggi, andai apposta a cercare questo locale, spiegai il ritaglio di giornale e chiesi a gente del posto, entrai e dissi ad una delle sorelle: “Buongiorno, ho letto…”, ma non feci in tempo a finire la frase. Col dito puntato, la giovane signora mi inchiodò: “Mura e la sua recensione… non è il primo, vi potrei riconoscere appena entrate – voi suoi lettori – solo guardandovi, da come vi muovete”, disse. Rimasi di sasso, piacevolmente di sasso.

Per anni ho tenuto una rubrica settimanale sul “Manifesto”, si chiamava “La barba al palo” e raccontava le curiosità, le miserie e le belle storie del calcio cosiddetto minore, quello che ogni domenica si gioca sui campi più sperduti di questo bellissimo e stranissimo Paese.

Trovai un editore (Deriveapprodi) – fedele lettore del “manifesto” più che della rubrica – che scelse di raccogliere alcune puntate e di farne un libro, “Quasi gol”.

Un divertimento, non un investimento, come è giusto che sia.

Insieme ragionammo sulla possibilità di chiedere la prefazione a “Giannimura” (tutto d’un fiato), avendo ovviamente in tasca il piano B, C, D e via discorrendo. Era come chiedere a Messi di venire a giocare a calcetto con gli amici del bar. Facciamoci dire di no, si decise.

Mi feci dare l’indirizzo mail e poi il numero telefonico, chiamai.

Non solo “Giannimura” si disse certo disponibile, non solo l’argomento “denaro” non disturbò mai la conversazione, ma mi colse quasi di sorpresa dicendomi – ora le parole precise non me le ricordo bene, ma all’incirca… – che quasi si aspettava quella telefonata. Fatte le debite e dovute proporzioni, anche lui era un “aficionado” della rubrica.

“Conosci un Paese al mondo – mi chiese – dove un  designatore arbitrale deve girare con la scorta? Non è un magistrato antimafia, non è un ministro, non è ricco sfondato. E allora, perché? Ma Collina in fondo è un privilegiato. Gli arbitri che racconti tu, quelli che vanno in guerra tutte le settimane, fanno più tenerezza. Sono pazzi o eroi, a girare da soli e disarmati in un mondo, quello del calcio, che è come il far west, con pochi sceriffi e molti banditi”.

Resta il ricordo di un maestro – a distanza, come da recenti disposizioni – che ha saputo raccontare tutto. E che, rubo le parole ad Ivano Maiorella (Uisp, sport per tutti, di cui “Giannimura” era un amico vero) “ci ha insegnato che lo sport non è un genere narrativo, ma un cannocchiale rovesciato col quale accorciare la distanza tra le persone e la cultura. Con ironia, precisione e leggerezza”.

E con poesia, aggiungo.

Poesia che amava al punto che con i versi di qualche poeta – famoso e non – ultimamente era solito chiudere i suoi “giorni di cattivi pensieri”.

Giustamente, possiamo dire oggi. Perché la poesia, scriveva Italo Calvino, consiste proprio nel far entrare il mare in un bicchiere.


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