L’Italia felice di Alberto e Lucia

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Ci hanno detto addio lo stesso giorno, in una delle settimane più difficili che si ricordino nella storia del nostro Paese. Alberto Arbasino e Lucia Bosè hanno legato, indissolubilmente, il proprio nome ai ricordi di un’Italia felice. Erano gli anni della gioia, della spensieratezza, della vivacità intellettuale, del boom economico e di un benessere un po’ provinaicle, un po’ pacchiano, a tratti finanche eccessivo ma comunque benefico per un’Italia che si stava lasciando faticosamente alle spalle gli orrori della guerra e il morso della povertà.
La pasticcera milanese Lucia Bosè vinse Miss Italia nel ’47, all’età di sedici anni, trasformandosi nel sogno proibito di milioni di italiani. Era un’Italia ingenua, fragile, misera, eppure dilagava un’umanità autentica, vitale, una smisurata voglia di vivere, la speranza di tornare a essere felici dopo aver conosciuto le bombe e le angustie di un conflitto devastante.
Alberto Arbasino era l’opposto: un intellettuale sferzante, mai banale, sempre pronto a remare in direzione ostinata e contraria, dotato di una penna magnifica, attento al costume e ai cambiamenti che si andavano realizzando nella società. È sua l’espressione iconica “casalinga di Voghera”: una definizione al femminile dell’italiano medio sublimato da Alberto Sordi in una serie di film memorabili. E suoi sono innumerevoli commenti: sulla politica, sulle tradizioni, sui vizi e sulle virtù del nostro Paese, di cui quest’intellettuale spigoloso e acutissimo coglieva a pieno le potenzialità e i limiti, la bellezza e la tragedia. Diciamo che per Arbasino, tra i protagonisti del rivoluzionario Gruppo ’63 con Eco, Colombo e altri, l’Italia era un’unica grande chiesa, in cui c’è sempre stato il bello e l’orrendo, la poesia e l’inferno. E lui quell’inferno lo ha saputo descrivere come forse nessun altro, con una scrittura corrosiva ma mai offensiva, con un’ironia tagliente, con parole forti, espressioni divenute celebri e un modo di essere e di fare che affondava le radici nell’universo liberale d’antan, ai tempi del Mondo di Pannunzio e delle serate trascorse in via Veneto.
Lucia Bosè, dal canto suo, abitava in Spagna da una vita, dopo essersi sposata con il torero Luis Miguel Dominguín. L’amore è finito anche abbastanza presto ma la sua passione per la terra iberica no. È stata il simbolo della favola, della realizzazione personale dopo l’abisso, un esempio di emancipazione e un punto di riferimento, una speranza per milioni di ragazze che, magari, non sono diventate famose come lei ma che di sicuro, grazie a lei, si sono potute lasciare andare all’entusiasmo più sfrenato nella stagione in cui l’Italia aveva bisogno di ritrovarsi.
Due modelli che non ci sono più, forse gli ultimi testimoni di una stagione irripetibile consegnata all’eternità.

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