Pino Pinelli, anarchia non vuol dire bombe

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Di Pino Pinelli è stato detto e scritto molto, forse troppo, negli ultimi cinquant’anni. Che era un anarchico, che è stato messo in mezzo, che è caduto o forse è stato gettato dalla finestra del quarto piano della questura di Milano, che con la strage di piazza Fontana non c’entrava assolutamente nulla, come nulla c’entrava il ballerino Valpreda, e che la sua morte, e le tante altre morti per cui non è mai stato stabilito un colpevole, è servita a coprire i nomi dei veri responsabili dell’attentato: non tanto gli esecutori materiali quanto, più che mai, i mandanti.

Ciò che solo ora si comincia a leggere, anche grazie alla meritoria azione del sindaco Sala e alla riabilitazione che ha compiuto nei giorni scorsi, prestando un’attenzione inedita e assai positiva alla figura di questo pover’uomo, antesignano di altri casi strazianti di cittadini morti nelle mani dello Stato, è che era innanzitutto una persona perbene, contraria a ogni forma di violenza e in totale dissenso con i metodi propugnati pure da alcuni suoi compagni di lotta. Checché ne dicano certi soloni, Pinelli era un pacifista, un ferroviere che non avrebbe fatto del male a una mosca, un galantuomo contrario a ogni forma di fascismo, di sopraffazione e di crudeltà, un idealista, se vogliamo, forse persino un ingenuo, uno che si batteva con gli ultimi e per gli ultimi contro un potere di cui già allora vedeva tutto il marciume e l’ingiustizia.

Non staremo qui a rammentare i nomi dei personaggi coinvolti nella vicenda, anche perché non abbiamo alcuna intenzione di lordare la memoria del commissario Calabresi, probabilmente un’altra vittima di un gioco più grande di lui, un altro uomo lasciato solo, abbandonato nelle mani di uno Stato che serviva con onore ma dal quale è stato sostanzialmente tradito.
Non staremo qui a ribadire che il questore Guida era lo stesso che dirigeva la colonia di confino politico di Ventotene né il coinvolgimento dei servizi collusi, del neofascismo veneto e di quanti non aspettavano altro che un episodio eclatante per dar vita alla torsione in senso autoritario dei princìpi cardine della nostra Costituzione, così da chiudere i conti con l’autunno caldo e le sue sacrosante rivendicazioni.

Non intendiamo riaprire ferite che, in realtà, il nostro Paese non è mai stato in grado di chiudere, per il semplice motivo che abbiamo sempre avuto, al massimo, la gentile concessione di un surrogato di verità, di qualche frase detta a mezza bocca e di qualche tardivo pentimento, mai ad opera dei responsabili effettivi che difficilmente cominceranno a parlare adesso.

Vogliamo qui ricordare ai più giovani che Pino Pinelli, ferroviere anarchico, animatore e attivista del circolo del Ponte della Ghisolfa, colpevole unicamente di essere il capro espiatorio ideale, è stato per troppi anni infamato, considerato uno stragista e travolto da una ferocia non meno eversiva di quella delle due bombe che esplosero alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, provocando diciassette morti e circa novanta feriti.

Pinelli, per dirla con il genio assoluto di Dario Fo, è stato un “morto accidentale”, un danno collaterale, un nome sacrificabile, un ultimo che è stato prima dato in pasto all’opinione pubblica e poi calpestato, non avendo alcuna possibilità di difendersi.

Ci son voluti cinquant’anni, qualche centinaio di vittime, la morte di Moro e, soprattutto, di alcuni di coloro che non si sono mai potuti permettere neanche un grammo di verità né un briciolo di limpidezza affinché almeno la sua memoria fosse riabilitata.

Lo Stato italiano ha preferito assolversi, andare avanti, coprire, sopire e troncare, con la drammatica conseguenza di non essere più credibile agli occhi di una moltitudine di cittadini. Se volete comprendere le radici dell’anti-politica attuale, andate in pellegrinaggio a piazza Fontana e lì troverete molte delle risposte che cercate.

A noi, magra consolazione, resta “La ballata del Pinelli”, con quel verso atroce, “anarchia non vuol dire bombe ma uguaglianza nella libertà”, di cui progressivamente anche la sinistra ha preferito disfarsi.

Oggi ha vinto l’oblio. Per questo, non per altro, fatta salva la sincera coscienza democratica del sindaco Sala, Pinelli è stato riabilitato. Per trasformarlo in un altro santino, proprio come Moro, una vittima smarrita nella nebbia di una vergogna che a scuola non si studia nemmeno. E persa la coscienza critica, dissolto il senso civico e venute meno alcune preziose testimonianze, il martire non fa più paura.

Pino Pinelli, cinquant’anni dopo. Voleva essere un uomo libero: è stato trasformato in una figurina. Almeno questo oltraggio gli doveva essere risparmiato.

P.S. Quarant’anni: auguroni a Raitre e ai telegiornali regionali! Un’informazione di qualità, destinata a segnare un’epoca e a illuminare i troppi punti oscuri che ancora caratterizzano la nostra società. Speriamo che a nessuno venga in mente di “normalizzarla” e, soprattutto, che non gli riesca.


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