Della quiete che manca in famiglia: il viaggio di Trapero dentro le geometrie relazionali

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La Quietud è il nome di una tenuta immersa nel verde in Argentina, la cui proprietà è passata, in circostanze non del tutto limpide, da una coppia arrestata per l’opposizione alla dittatura a un diplomatico connivente con il regime. Da qui il titolo originale del film che Trapero ha portato alla 75° edizione della Mostra del Cinema di Venezia e che in Italia esce come Il segreto di una famiglia, titolo troppo astratto per rendere il clima profondamente fisico del film, che dietro la “quiete” apparente cela un groviglio emotivo pronto a deflagrare. Trapero raccconta una storia sempre sospesa tra la scarsa credibilità dei triangoli da telenovela e il compito delicatissimo di addentrarsi con sguardo comprensivo e non giudicante nelle pieghe dei rapporti familiari, che possono celare grandi sofferenze e sottoporre a costrizioni e violenze indicibili. L’interesse del regista argentino per i clan non pare affatto esaurito dopo l’omonimo film che lo portò a ricevere un Leone d’argento nel 2015.

In una delle primissime scene la macchina da presa fa inaspettatamente irruzione nel letto delle due sorelle, appena ritrovate per la malattia del padre, tra mani che scivolano e parole sussurrate, che rievocano le loro prime eccitazioni condivise da bambine. Trapero ci cala subito in una dimensione conturbante e in un legame profondo, avvolgente, vischioso, che lascia presagire più ombra che luce.

Le donne di famiglia (le sorella Mia ed Eugene e la madre Esmeralda) tornano tutte e tre sotto lo stesso tetto quando il pater familias viene colto da malore mentre sta rendendo dichiarazioni spontanee sull’oscura vicenda dell’acquisto di quella meravigliosa, sconfinata tenuta, che tanta parte svolge nel film specie come set dell’azione. E’ per rendere visita al padre in fin di vita che la primogenita Eugene torna da Parigi, dove vive col marito, ed è questa improvvisa convivenza a tre che provoca l’incrinarsi progressivo di tutta l’impalcatura che regge gli equilibri familiari. Ogni occasione è buona per mostrare la tensione tra Mia, la sorella minore tornata coi genitori in Argentina dopo la forzata permanenza in Francia, e la madre (la bravissima Graciela Borges, eccessiva e perfetta nel ruolo smaccatamente tragico), che nutre una predilezione esplicita per la figlia maggiore Eugene.

Entrambe bellissime, molto complici, unite da forti sentimenti di amore e di riconoscenza reciproca, ma anche da non detti insidiosi, non ultima la condivisione dell’amore per lo stesso uomo. La differenza tra amore passionale e amore razionalmente scelto, il tentativo di ripararsi reciprocamente dal dolore, un rapporto troppo e drammaticamente diverso con la propria madre, sono aperture profonde al femminile, fino a toccare in modo tangibile la forza ambivalente della sorellanza, che sfiora l’incesto; sembra di sentir respirare quei legami malati (e fatalmente iniqui) nelle stanze lussuose e nel verde rigoglioso e curatissimo intorno alla villa. Ma la cura che la madre riserva alle rose del giardino e non a quanto dice sua figlia Mia suona stridente e ci prepara alla confessione, centrale nel film, riguardo alla sua difficoltà emotiva con la figlia minore (e con l’apparentemente amatissimo marito). Intanto la telecamera indugia piacevolmente su paesaggi e dettagli naturalistici della hacienda che contribuiscono a rendere caldo e esteticamente apprezzabile il film. Il cancello con la scritta “Quietud” che si apre e chiude a inizio e fine film, in momenti diversi della giornata, dove il sole colora in modo diverso la tenuta, rende inesorabili ma non immutabili gli orizzonti dei rapporti familiari.

La colonna sonora resta attaccata alla pelle, con il continuo affiorare del brano della cantautrice cilena Mon Laferte Amor completo, definito con aggettivi come “inquieto” e “drogado” che lo fanno sentire, appunto, talmente imprescindibile da poterne morire soffocati.

Non sono banali i tentativi di abbozzare la complessità dei sentimenti materni, di quello che scatta interiormente ed esteriormente (nel contesto sociale e collettivo in cui la futura madre è inserita) quando comincia una gravidanza, cui le interpreti sanno dare spessore. E’ un film sorgivamente latino ed eccessivo, iperbolico anche nel sovraccaricarsi di tematiche e di incroci narrativi, di metafore non tutte riuscitissime, specialmente nel parallelismo tra dimensione intima e dimensione politica, ma che prova a mettere al centro la dimensione corporea dell’emotività e degli impulsi affettivi, non sempre esclusivi dell’ambito di coppia.

Il finale è forse la parte meno convincente della narrazione, appena abbozzata e ammiccante a tematiche sociali, come la fecondazione assistita, foriere di interrogativi troppo complessi per restare così sfocate sullo sfondo.


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