Sovranisti, non vi capisco. Europei… neppure

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I sovranisti non riesco proprio a capirli. Tutti vorrebbero una casa più grande, un giardino più grande, un’area a propria disposizione senza barriere, un infinito percorribile senza limiti né ostacoli. È nella natura transumante degli esseri viventi espandersi ed esplorare. Lo stesso nostro pianeta, visto dallo spazio, presenta le tre sole dimensioni del solido, del liquido e del gassoso – terra, aria e mare – forse creati al solo scopo di non farci annoiare e di sfidarci a conquistarli. Ma, dall’alto, non si vedono muri o fili spinati che non siano stati messi lì dagli uomini.

Tra l’aprire una porta finestra su un giardino che dopo dieci metri trova un muro e aprire la stessa porta finestra di fronte ad una prateria non mi sembra che possa esserci un problema di scelta. Eppure, ad onta di questa evidenza perfino istintiva, si assiste al risorgere dell’istinto del tramezzo divisorio, del recinto, del confine. Come se vivere in una cella fosse preferibile al correre nei prati. L’incomprensione, poi, è massima pensando che questa capriola all’indietro l’ha fatta per primo, in Europa, il popolo italiano, quello composto, oltre che da poeti, artisti, eroi, santi, pensatori e scienziati anche, e forse soprattutto, da navigatori e trasmigratori. Che fine hanno fatto i Cristoforo Colombo, gli Amerigo Vespucci, i Caboto, i Marco Polo? Come può essere che una parte tanto grande di italiani abbia deciso, nell’arco di un anno appena (erano solo il 17% il 4 marzo 2018), che è bello sedersi sul divano a guardarsi l’ombelico?

La paura del mondo esterno è una novità alla quale assistono perplesse e incuriosite le nuove generazioni perché questa dilagante agarofobia alligna solo fra i vecchi e alcuni disadattati, non certo fra i giovani che vedono nell’intero universo il luogo in cui realizzare le loro vocazioni.

Per vero, in questa aspirazione dei ragazzi a sentirsi cittadini del mondo – tanto per non rinunciare del tutto ai confini – un limite c’è ed è grave. Si tratta della lingua che impedisce fortemente lo scambio delle emozioni.

In Europa è stata fatta la moneta unica, lo spazio Schengen per le persone, il mercato unico per le merci, ma ancora nessuno si è battuto per l’adozione di una lingua comune, per il bilinguismo obbligatorio a livello istituzionale, scolastico, legislativo. Posso andare a Berlino con la mia normalissima carta d’identità, innamorarmi di una maglietta e pagarla con la stessa moneta che uso a Roma, ma se voglio chiedere al venditore se la maglietta è di lycra o di cotone, mi tocca balbettare come un infante ed esprimermi a gesti. Che razza di Europa può mai essere quella in cui se voglio esprimere ai francesi la mia vicinanza per gli attentati dei fanatici islamici mi tocca fare gli occhioni teneri come un gatto e non posso ricorrere alla parola quale mezzo principe per esprimere il mio pensiero? Che dire, poi, per un avvocato il prestare assistenza tecnico giuridica al proprio cliente al di fuori dei confini statali! Chi lo sa leggere il codice di procedura civile in tedesco o le norme sulle società vigenti ad Amsterdam?

Eppure la soluzione è a portata di mano con la lingua inglese: una lingua che non ha generi, che fa il plurale con l’aggiunta di una semplice “s”, che fa il passato aggiungendo “ed” e il futuro con “will/shall”. La parla l’America come l’India ed è la preferita nelle scienze e nella tecnologia, cioè nel sapere del futuro. Non voglio semplificare troppo e ammetto che la lingua inglese ha una tale varietà espressiva da riuscire a manifestare qualunque concetto di altissima filosofia e poesia. Tuttavia bisogna oggettivamente riconoscere che non è appesantita dai congiuntivi, da una grammatica ossessiva, da una consecutio temporum proibitiva e da preposizioni articolate cervellotiche. Né pretendo alcuna purezza linguistica. Mi basterebbe che, andando a comprare il formaggio durante un viaggio a Sofia, io potessi chiedere al droghiere un “come va la vita?” senza rischiare che la lingua mi si attorcigli in bocca.

Senza una lingua comune non c’è comune sentire e soprattutto non c’è la possibilità di spiegare agli altri perché è opportuno cambiare idea. Abbattere le barriere come con la normativa Schengen non ha eliminato i limiti e i confini delle lingue. Questi quando li abbattiamo?


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