Nando Martellini, la voce delle nostre emozioni

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“Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!”: basta questa triplice esclamazione per descrivere Nando Martellini.
Ci disse addio quindici anni fa, il 5 maggio 2004, e capimmo subito di aver perso molto più di un telecronista.
Aveva ottantadue anni quando si spense, dopo una vita trascorsa a viaggiare, raccontare e farsi cantore delle gesta di alcuni dei più grandi campioni di tutti i tempi. Fu lui, ad esempio, a narrare la partita del secolo fra Italia e Germania Ovest nell’indimenticabile notte messicana dell’Azteca. Così come fu lui a seguire Giri d’Italia e Tour de France a ripetizione, raccontando le imprese di Merckx e della nuova scuola dei Campioni italiani, da Gimondi a Saronni, degni eredi di Coppi e Bartali e degli altri pionieri cui dobbiamo l’epica delle due ruote.
Cinque mondiali, con un secondo posto nel ’70, contro l’aureo Brasile di Pelé, e una vittoria, in Spagna nell’82, quando ebbe la fortuna di seguire la rinascita di Paolo “Pablito” Rossi e l’impresa degli Azzurri di Bearzot, vincitori contro tutto e tutti al termine di una stagione tra le più difficili in assoluto per il nostro calcio.
Raccontò anche gli Europei del ’68, vinti sempre dagli Azzurri, all’epoca guidati da Valcareggi (di cui ricorre il centenario della nascita), nel catino infuocato dell’Olimpico di Roma, con lo spettacolo dei giornali trasformati in torce durante la ripetizione del 10 giugno, dopo il pari di due giorni prima (all’epoca non esistevano i rigori), contro una Jugoslavia probabilmente più forte ma tradita dalla stanchezza e dall’astuzia di “zio Uccio”, il quale cambiò mezza squadra e mise in campo i giovani leoni che avrebbero egemonizzato il decennio successivo. Ne venne fuori un 2 a 0 spettacolare, grazie alle reti di Riva e Anastasi, alla saggezza del ventiseienne Zoff e alla tenuta atletica complessiva di una sqaudra fresca e vogliosa di mettersi in evidenza, contro una corazzata come detto più forte ma ormai spremuta e incapace di reagire.
Martellini c’era a Roma, c’era in Messico, quando dovette sostituire Carosio per una presunta, e poi rivelatasi falsa, ingiuria che questi aveva rivolto all’indirizzo di un guardalinee etiope, c’era nel Mondiale delle tenebre e delle tentate combine del ’74, c’era nei giorni della rinascita in Argentina, quando una nuova generazione si affacciava sulla scena per prendere definitivamente il posto degli eroi ormai logori di zio Uccio, e c’era al Sarriá di Barcellona e nell’apoteosi di Madrid, con Pertini che non stava più nella pelle e due friulani tosti, il già menzionato Bearzot e Cesare Maldini, in grado di trasmettere ai ragazzi in campo un’anima partigiana e sempre pronta alla battaglia.
Ed è rimasto anche dopo, come tutti i miti che non invecchiano mai, che non si arrendono, che non si perdono d’animo e continuano a lottare, lui figlio della stessa leva che ci ha regalato i Ciotti e gli Ameri, a loro volta membri di una famiglia di cantori dello sport che appartiene a pieno titolo alla storia del nostro Paese.
È rimasto, ci ha creduto, si è appassionato e ci ha preso per mano sino alla fine, come un moderno aedo, un Omero del calcio e del ciclismo, un uomo perbene, uno di quei personaggi che forse non esistono più o, se esistono, sono maledettamente rari.
Ciao Nando, sapendo che lassù stai stringendo in mano un microfono.

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