La sentenza di Lecce che “rivede” la riduzione in schiavitù dei braccianti

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Secondo la Flai Cgil e tutte le associazioni che per anni si sono spese cercando di sollevare il velo sul feroce mondo del caporalato in agricoltura si tratta di un duro colpo assestato alla legge e alla speranza. Ma la recentissima sentenza della Corte d’Appello di Lecce parla chiaro e riforma alla radice quanto stabilito nel giudizio di primo grado a carico di un’associazione per delinquere “finalizzata alla riduzione in schiavitù dei lavoratori migranti impegnati nella raccolta di angurie e pomodori” nel Salento, esattamente a Nardò. La Corte d’Assise di Lecce a luglio del 2017 aveva condannato sia gli imprenditori agricoli coinvolti che i caporali, comminando pene variabili fra i 7 e gli 11 anni. Il motivo per il quale in Appello quel giudizio è stato ribaltato è di ordine temporale. Sostiene la Corte d’Assise di secondo grado che i reati di caporalato e riduzione in schiavitù sono stati introdotti nell’estate del 2011 mentre in questo procedimento specifico si contestano fatti avvenuti tra il 2009 e il 2011, dunque quando la riduzione in schiavitù, aggregata alle estorsioni subite dalle vittime, non era ancora inserita nell’ordinamento come reato. Questa la tesi della difesa, accolta dalla Corte, mentre la pubblica accusa, rappresentata dal procuratore generale Giovanni Gagliotta, aveva chiesto la conferma del verdetto di primo grado.Per quanto riguarda le estorsioni gli atti sono stati trasmessi al gip del Tribunale di Lecce che dovrà riformulare il capo d’imputazione e dunque si potrebbe ripetere il processo verso gli stessi imputati ma è evidente la posizione più lieve che si profila. Il nodo di fondo preso in considerazione riguarda l’iter della legge che gradualmente, tra il 2011 e il 2016 aveva finalmente guardato negli occhi cosa accade nelle campagne italiane: le norme sul caporalato, prima versione, sono del 2011; la rivisitazione con pene più severe è del 2016. La riduzione in schiavitù, disciplinata dall’articolo 600 del codice penale, riguarda la condizione di soggezione in cui viene tenuta la vittima con minacce e/o violenze. In questa fattispecie è stata fatta rientrare la posizione di moltissimi braccianti agricoli di origine straniera, alcuni dei quali vivono in baracche, tuguri, in condizioni di privazione della libertà di muoversi perché non hanno i documenti e spessissimo sono obbligati a chiamare il caporale o l’imprenditore “padrone”. In una dichiarazione al sito “Riforma.it” Yvan Sagnet, ingegnere ed ex bracciante, che guidò la rivolta di Nardò nel 2011 e oggi presidente della Rete NoCap dice: “Siamo arrabbiati perché pensiamo, come parti civili e come lavoratori, che il fatto ci sia: noi abbiamo subito nelle campagne questo tipo di reato”.
Sul piano pratico la sentenza ha assolto 11 dei 13 imputati e tra questi l’imprenditore Pantaleo Latino, detto il ‘re delle angurie’, ritenuto dall’accusa a capo del sodalizio criminale transnazionale dedito allo sfruttamento e riduzione in schiavitù dei migranti impegnati nella raccolta delle angurie nelle campagne di Nardò.In questa città scoppiò la rivolta che poi produsse l’avvio dell’inchiesta e in seguito il processo. Le assoluzioni, a latere, avranno come effetto l’annullamento dei risarcimenti accordati alle parti civili e che erano stati, appunto, valutati sulla base dell’odioso reato di riduzione in schiavitù. Appare dunque ancora molto lungo e tortuoso il cammino verso una effettiva giustizia per coloro che vengono sfruttati nei campi per mantenere bassi i prezzi in agricoltura. Anche questo è stato un passo indietro, al netto delle ulteriori impugnazioni che si potranno avere. L’effetto immediato è stato di ordine morale perché migliaia di braccianti avevano trovato il coraggio in questi anni di denunciare, farsi avanti, raccontare, dando la possibilità a numerose Procure e Tribunali italiani di contestare gravi violazioni a imprenditori e caporali.


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