Luigi De Filippo, fra Molière e Balzac

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Luigi De Filippo che sulla scena “fingeva”  di essere uomo saggio, posato, conciliante e conciliato con ogni balordaggine della vita (talvolta a rischio dell’innocuo-bonario), era – nella professione di ogni giorno- un infaticabile, lungimirante, autorevole fautore del “teatro di repertorio” integrato alla complessità  del ‘contemporaneo’, alla genialità di utilizzare il ‘canovaccio’ con l’estro, l’impulso, la tempestività intuitiva del grande Capocomico (nell’accezione più alta del termine) del tutto affrancato (dopo averli metabolizzata) dai genomi e dalle fisiognomiche ombreggiature di ‘cotanta’ famiglia d’arte.

Arguto, gioviale, scrupoloso sino al perfezionismo, come il compianto cugino Luca, Luigi ha infatti tramandato e onorato il ‘cognome’ senza mai viverne di rendita e nemmeno darne il (minimo) sospetto: che anzi esorcizzava con una recitazione tutta sua, istriata di sberleffi e linfe plautine, oltre ai numi d’una sua certa  idea della ‘napoletanità’- milionaria si, ma di mille indulgenze, scorribande, difetti, minime viltà ed esercizi di  buon cuore “mai del tutto disinteressato”. Per  un’ars della sopravvivenza  che prolungava e catturava le lese dignità di cui testimoniarono (in misura eterogenea) Viviani, Scarpetta, Petito, Fusco, Di Giacomo oltre allo zio Eduardo e papà Peppino (la famigerata ‘miseria bella’)- con una recitazione a tutto tondo, ‘naturalistico-spontanea’ che era paradosso, antifrasi,  scoria di “realtà”- giusto a dimostrazione che tale non fu mai, né avrebbe potuto .

Poco valorizzato dal cinema, ma con una terna di partecipazioni significative (“Arrangiatevi” di Bolognini”, “Policarpo” di Soldati, “Le giornate di Napoli”), ancor meno gratificato da commediografo in proprio (“La commedia de re buffone e del buffone re”, “Storia strana su di una terrazza napoletana”, “Come e perché crollò il Colosseo”), Luigi De Filippo tramanda a chi resterà la sua esemplare (innata) capacità di essere una delle ultime “maschere” raziocinanti e selettive di una Commedia dell’Arte, ‘bagnata’ da umori   stralunati, financo  beckettiani, ma  insofferenti ad una certa idea della ‘modernità’ forzosa  e ad oltranza. Come quando gli venne naturale rifiutare le profferte televisive che allettavano l’orgoglio filiale per ‘reinventare’, ad uso della platee del sabato sera, un “macabro” rifacimento del (non ripetibile) Pappagone paterno  – nello   strepitoso successo di quei grammelot  sud-vernacolari, designanti un’Italietta di sgrammaticati, creduloni e “ruspanti famigli”  che ci illudevamo di avere confinato (e poi debellato) ai piccoli distretti della fame atavica e farfugliona.      Occhi piccoli, acuminati, baluginanti l’arguzia di uno cui “non puoi darla a bere”, Luigi De Filippo resta per noi (a biografia già nota) l’inaspettato, non replicabile protagonista di alcune fra le più deliziose serate teatrali degli ultimi anni.

Sapiente alchimista – come giustamente ha già scritto  Roberto Bertone- di una sobrietà “timida”, scrupolosamente interiorizzata “di cui non ci si può rendere conto se ci si ferma alla superficie dello stereotipo” ovvero del “napoletano esuberante e caciarone, di cui non si coglie la grandezza e la raffinatezza” che è basica, impercettibile, tribolante filosofia di vita.

Tre le esperienze di platea che ci legano – nel recente passato- alla memoria di Luigi.

Andando a ritroso, il “Natale in Casa Cupiello” che portò in tournée alla fine dello scorso anno, iniziando da quel Parioli di Roma, di cui quasi ottantenne aveva rilevato la gestione e la direzione artistica, sempre di indiscussa qualità proprio perché aperta ad ogni genere di teatro, da quello in italiano ai (tanti) esempi di esperienze  europee ospitate con generosità, e rischio personale, nelle brevi trasferte romane di “non meglio identificati” Carri di Tespi.

“Quando incontravo mio zio – ricordava l’attore in un’intervista – mi parlava di ‘Natale in casa Cupiello’ come di una commedia affatata… perché, diceva, mette insieme ironia, comicità e commozione. Oggi mi rendo ancora più conto di quanto avesse ragione: fa ridere, riflettere, piangere. La chiave del suo successo è proprio nella complessità dei sentimenti che genera, senza che essi abbiano mai smesso di unire, avvelenare,   dare stupide rivalità alla nostra condizione umana: familiare o collettiva poco cambia”. Mentre Ugo Chiti, che dello spettacolo aveva curato l’ultimo adattamento, ci aiutava a capire “come e perché”  quei Cupiello, nella regia dello stesso De Filippo, occhieggiassero la Commedia Umana di Balzac senza però tralasciare la Commedia dell’Arte, intrecciando ulteriormente le trame amorose in un’affettuosa (sorprendente) allusione a Marivaux.

Analoghe emozioni per “L’Avaro” di cui De Filippo aveva traslato l’azione scenica dal Seicento francese al 1860 quando, il 7 settembre, Garibaldi entrò trionfalmente a Napoli. Cornice storica che (oltre ad inserirsi  nel logo ufficiale del 150o anniversario dell’Unità) fu     pretesto drammaturgico per illustrare con sulfureo sarcasmo gli “splendori, miserie, contraddizioni” di un popolo già avviato alla disintegrazione delle ataviche identità, annodandosi (impercettibilmente) ad  un ulteriore approfondimento della “Aulularia” di Plauto, che nel protagonista  Arpagone-De Filippo  “guadagnava” un’ombra di  oscura e  maniacale “insicurezza ossessiva dell’ignoto” consona ai personaggi “neri e minacciati da non si sa cosa” frequenti nel  repertorio molièriano. Ovvero una “commedia di caratteri” rimirata dalla prospettiva dell’assurdo e del gioco teatrale che anticipa la cerebrale e pirandelliana “camera della tortura”

Ed infine, avendo citato l’Agrigentino, quel “Berretto a sonagli” in traduzione partenopea che Luigi dedicò esplicitamente alla memoria dei suoi cari. Allorquando  la  ‘prima’  dello spettacolo avvenne  al Teatro Fiorentini di Napoli il 14 Febbraio del 1936, con  Eduardo, Peppino e Titina  “travolti dagli applausi di un pubblico entusiasta”. Mentre Pirandello si  felicitava e commentava “con gli attori italiani che interpretano le mie opere, ho sempre tanta difficoltà a far intendere il valore delle pause che io segno nel testo. Loro, in genere, si rifiutano di tenerne conto. Voi, invece, le avete fatte, queste benedette ‘pause’, come la cosa più naturale di questo mondo. Questo mi conferma che sono davvero necessarie, e che io non sono un rompiscatole quando pretendo che vengano rispettate”.

E il giudizio della critica fu: “I De Filippo, ieri sera, sono stati,  nobilmente e compiutamente, veri  grandi attori”.   Non si trattò, ovviamente, di inventarsi un dagherrotipo di quel che più non esisteva, ma cercare di penetrare con “cautela, titubanza, inevitabile soggezione” lo spirito di una certa epoca che, quella sì, aveva cessato di esistere per sempre. Giusto con il dissidio e il divorzio scenico fra Eduardo e Peppino, che “fece molto male” alla cara Titina, incapace di “scegliere” quel che le appariva (giustamente) innaturale: un fratello o l’altro al quale  aggregarsi…Ne soffrì sino alla fine prematura. Ma questa sarebbe (è) storia privata e ben diversa dalla serale disciplina dei tavolacci scenici- che Luigi ha onorato per oltre settant’anni.

Non è da tutti.


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