Lavorare gratis, una prassi sfuggita di mano e alla quale possiamo porre rimedio

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Torno a parlare di lavoro con un tema sociale di assoluta pertinenza: il lavoro gratuito, la prevista non retribuzione a seguito di un servizio reso. Qualcosa che è evidentemente sfuggita di mano e per la quale bisogna fare alcune precisazioni, per evitare che in futuro questo discorso venga strumentalizzato. Un conto è scegliere con cognizione se svolgere una mansione in modo del tutto volontario, un altro è vedersi trasformata questa necessità in sfruttamento legalizzato che si declina spesso in stage, promesse di assunzione, ricerca di contatti utili, il tutto amplificato dalla gran fame di lavoro che persino l’Istat non fatica a verificare. E sappiamo che alla fame di lavoro, se non risponde lo Stato le mafie fanno il resto. La speranza che un periodo di sacrifici possa finalmente essere sinonimo di lancio verso qualcosa di più bello e duraturo, dove nella prassi si diventa acrobati senza accorgersene, in realtà è un ossimoro.

Alcuni giorni fa mi interrogavo sul mio profilo Facebook circa questa usanza di propinare lavori gratuiti che è diventata in breve tempo abuso stesso della disoccupazione. Oggi questa forma di lavoro sembra normale, ma non lo è. I due post scritti sull’argomento hanno suscitato vivo interesse tra i miei follower, ed è per tale ragione che ho sentito il bisogno, trainato dalla premura di un cambiamento, di scrivere in questa sede un articolo più corposo e fruibile.

Cosa implica lavorare gratis nel giornalismo e in altri settori

Nei due post citati, facendo ampio riferimento al giornalismo quale croce e delizia del mio percorso professionale, chiedevo che al fianco dei freelance che più spesso si trovano nelle condizioni di dover accettare o rifiutare un lavoro non retribuito, facessero rete anche le associazioni di categoria, i sindacati e i professionisti, perché anche questo al pari di altri problemi quali le querele bavaglio o l’equo compenso è cruciale affinché venga svolto nel migliore dei modi possibili il servizio pubblico.

Una pubblicazione a visibilità “volontaria”, non rende giustizia né merito a colui/colei il/la quale ha investito il suo tempo e le sue conoscenze per dare un valore aggiunto a un certo tipo di contenuto. Anzi, questa totale mancanza di perizia sembra più un’espiazione come a doversi pentire di scrivere troppo che, nel caso si sia sprovvisti anche del magico tesserino, si traduce in relegazione ai margini. Inoltre, essendomi occupata di antimafia e diritti umani, mi è stato persino detto quasi auspicando che mi ricredessi di non poter guadagnare sui diritti civili, che è come dire a un medico di non poter pretendere alcun salario perché altrimenti si specula sulla salute delle persone.

Questo discorso in un Paese che si dice civile e democratico trova riscontro anche in altri settori, anzi dalle continue segnalazioni senza voler esagerare sembra che non esistano settori esenti da questo problema. Non dobbiamo avere paura di avere ragione, perché l’unica cosa sbagliata da fare di fronte ad un’ingiustizia come questa è quella di non dire niente, continuare a tacere come se fosse normale. Se si accetta per qualunque ragione un lavoro non retribuito, carriera e ambizione vengono frenate da un compiacente e falso salto di qualità. Un lavoro non retribuito non rende precari, ma dipendenti da qualcuno, familiari o amici che siano: fare la spesa, comprare un biglietto dell’autobus per recarsi nel luogo stesso di lavoro, etc. Per non parlare di quella dose accumulata di frustrazione, che all’occorrenza viene fuori quando qualcuno ci sprona di continuare, di non mollare la presa sulle nostre minate priorità.

Cambiamo insieme con una campagna di sensibilizzazione

Ecco perché urge trovare una soluzione: con la stessa facilità con cui questa umiliante procedura è stata messa in atto, supportata da tutti quelli che hanno contribuito a sporcare il lavoro (vedi il volontariato, vedi chiunque abbia sminuito il proprio valore e chiunque per risparmiare lo abbia permesso), tutti insieme – perché le battaglie di questo genere si combattono con l’unione – possiamo alzare la testa e dire NO al lavoro gratuito, volendo anche con una campagna di sensibilizzazione collettiva e cittadina #NonLavoroGratis, di mia invenzione, creata perché ritengo che potremo sfruttare la rete del web per illuminare questo dissenso comune e farci forza l’uno con l’altro. Non siamo soli. Dobbiamo fare come – se mi passate la similitudine – quando nel 2004 l’associazione Addiopizzo a Palermo invitò la gente a non pagare più “la mesata” con un messaggio importante: “Un popolo che paga il pizzo, è un popolo senza dignità”. Non vi sembra che lavorare gratis sia altresì poco dignitoso? Per me è avvilente, è ingiusto, è una prepotenza. Il mondo è già in crisi senza bisogno di altre pecore.


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