40 anni fa l’uccisione della guardia giurata Battagliarin. Ancora nessun colpevole

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Il dolore non passa. A distanza di quarant’anni la ferita non si è rimarginata né si rimarginerà. Mai. E il ricordo consola senza guarire.  Sopravvissute. Così Mara e Rosina si definiscono e si identificano. Figlia e vedova di Franco Battagliarin, guardia giurata della Civis, ammazzato da una bomba piazzata davanti all’ingresso del Gazzettino, nel cuore di Venezia, in calle de le Acque, vicino alle Mercerie a Ca’ Faccanon, storica sede del quotidiano che da qualche mese si era trasferito in terraferma a Mestre, lasciando dove ora c’è il palazzo delle Poste, la sola redazione locale. Era l’alba del 21 febbraio 1978.  Come ogni sera Battagliarin, padre di tre figli residente con la famiglia a Cavallino, vicino a Jesolo, aveva preso servizio alle 20: ancora tre ore e avrebbe terminato il turno di notte. A casa non tornò più: fu dilaniato dall’ordigno piazzato all’ingresso del palazzo. Aveva 49 anni. Tre settimane più tardi, a Roma, le Brigate Rosse avrebbero rapito l’onorevole Aldo Moro.

“Attentato fascista al Gazzettino” il titolo sulla prima pagina l’indomani. Qualche giorno dopo la rivendicazione telefonica di Ordine Nuovo. E a suffragare la pista nera anche il tipo di innesco esplosivo, ovvero una sveglia di marca Ruhla, la stessa utilizzata per le bombe sui treni del 1969 e per altri attentati riconducibili all’organizzazione neofascista. La carica di tritolo venne racchiusa in una pentola a pressione allo scopo di potenziare al massimo la portata offensiva: per uccidere.  Il sacrificio di Battagliarin  ha salvato altre vite, diverse: se non fosse uscito, forse attirato da qualche rumore sospetto, e non avesse toccato quel pacco depositato su uno scalino, la deflagrazione sarebbe avvenuta con ogni probabilità più tardi nel momento in cui la città si svegliava, la gente passava, i primi giornalisti arrivavano.

Ad oggi per l’uccisione di Battagliarin non c’è alcun colpevole. Nemmeno le dichiarazioni di Carlo Digilio, collaboratore di giustizia, pentito della destra eversiva, trovarono seguito processuale: nel 1996 affermò che a mettere la bomba fu Giampietro Montavoci, un ordinovista veneziano. Glielo avrebbe confidato lui stesso.  Ma il diretto interessato non poteva né negare né confermate: era deceduto da 12 anni sbandando con l’auto nei pressi del confine con la Slovenia, in circostanze mai chiarite del tutto.

Battagliarin verrà ricordato mercoledì 2 maggio, alle 16.30, dai giornalisti veneti, che depositeranno un mazzo di fiori sulla scalinata dove morì. L’evento rientra nell’ambito della celebrazione, il giorno seguente, della XI Giornata della memoria dei giornalisti uccisi da mafie e terrorismo – coincidente con la Giornata mondiale della libertà di stampa – che quest’anno si svolge a Venezia, nelle Sale Apollinee del Teatro La Fenice, a partire dalle 9.30. La manifestazione, promossa dall’Unione nazionale cronisti italiani, e organizzata dal Sindacato giornalisti Veneto in collaborazione con l’Ordine, ha sì lo scopo di commemorare e di onorare i giornalisti che sono stati assassinati o feriti nell’esercizio della professione, ma anche di denunciare le minacce e le intimidazioni che sempre più cercano di imbavagliare e amputare il giornalismo indipendente, investigativo, affrancato dai poteri forti o meno forti, impegnato, militante.

A portare la loro testimonianza in presa diretta, saranno tre cronisti costretti a vivere sotto scorta: Federica Angeli, Paolo Borrometi e Michele Albanese.

Interverranno, fra gli altri, i presidenti di Fnsi, Ordine e Unci, Giuseppe Giulietti, Carlo Verna e Alessandro Galimberti. Ci saranno anche alcuni familiari di giornalisti che hanno perso la vita per non essersi piegati, per non aver abdicato al dovere di informare e formare al servizio di un’opinione pubblica critica cui fornire strumenti per capire, comprendere, interpretare.

Presenti anche la moglie e le due figlie di Battagliarin – il figlio purtroppo è morto in incidente stradale nel 1988 – che hanno vinto la loro innata riservatezza, schive come sono a qualsiasi cerimonia, abituate a vivere la sofferenza nella dimensione del privato: “ Lo dobbiamo a papà, perché è giusto che non si dimentichi, specie in un momento come l’attuale in cui c’è un clima diffuso di intolleranza e di violenza. Papà era una persona buona e semplice. Il messaggio che ci ha lasciato – spiega Mara – è che l’odio genera solo altro odio. Penso ai fatti di Macerata. Non ci si può fare giustizia da sé e colpire alla cieca così come è stato fatto nel caso di mio padre”.


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