Quel libro che non ho mai pubblicato

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di Lillo Garlisi

La mail piomba nella casella di posta di “Melampo Editore” in una calda serata milanese del luglio 2013. Nell’affollamento di manoscritti e proposte editoriali che arrivano quotidianamente, l’oggetto in questo caso non può passare inosservato:  “Schema base capitoli Mi chiamo Riina”.
Leggo immediatamente il testo. A scrivere è Salvatore Giuseppe Riina, “il terzo figlio di Totò Riina”. Poche righe, secche, essenziali, per spiegare che ha scritto un libro sulla sua vita e la sua famiglia (testuale), “la famiglia di Totò Riina, il Capo dei Capi”.
In allegato il libro non c’è. C’è solo una pagina con una struttura dell’indice. Il primo istinto è quello di rispondere: “No, grazie. Non ci interessa. Noi stiamo dall’altra parte”.
Decido però di lasciar sedimentare la cosa per una giornata, ma inevitabilmente cominciano a ronzarmi per la testa delle domande senza risposta. La prima delle quali è: può una casa editrice che ha fatto dell’impegno civile e della conservazione della memoria la propria bandiera e la propria missione, non dico pubblicare, ma anche solo prendere in considerazione l’idea di avere in catalogo la versione della famiglia Riina sulle drammatiche e sanguinose storie di mafia?
E poi: perché Salvo Riina lo invia proprio a Melampo, casa editrice che ha tra i suoi autori nomi come Rita Borsellino, Antonino Caponnetto, Gian Carlo Caselli, Nando dalla Chiesa? È il risultato di una proposta inviata a tappeto a un certo numero di sigle editoriali o c’è dietro un raffinato disegno di posizionamento su un catalogo e uno scaffale ben preciso?
Il giorno dopo comincio a fare qualche telefonata per chiarirmi le idee. E anche alcune ricerche su Google, perché il web nasconde ma restituisce. Il quadro che ne emerge è abbastanza chiaro: il giovane rampollo della famiglia Riina ha avviato da qualche tempo un’operazione di “ripulitura” della sua immagine con pubbliche dichiarazioni e interviste su giornali. Si riscontra però nei suoi interventi una certa assenza di fatti.
Quali sono i suoi obiettivi allora? Ricostruire un’immagine personale o familiare? Lanciare messaggi a chi di dovere o a Corleone (perché poi sempre lì si ritorna) per far capire che comunque “loro” esistono e ci sono sempre?
Riguardo al manoscritto che ci viene proposto e che non abbiamo ancora visto, il dibattito all’interno della casa editrice è faticoso. Rifiutare? Lasciar cadere la cosa? Accettare di portare avanti la discussione? Alla fine decidiamo di rispondere. E di andare a vedere di che si tratta. La motivazione della decisione è semplice anche se terribilmente difficile. Perché riguarda il ruolo dell’editore. E l’editoria è merce delicatissima da maneggiare. Pubblicare qualcosa significa inevitabilmente metterci sopra il tuo marchio, la tua faccia, la tua storia, la tua credibilità. Per quanto l’editore se ne possa “dissociare” nel momento in cui pubblichi un libro lo hai fatto tuo. Affrontandolo da questo punto di vista non c’erano neanche le premesse per alcun tipo di prosecuzione del discorso.
Ma si poteva rinunciare a priori alla possibilità di poter aggiungere un tassello – anche piccolo – alla ricostruzione della tragica storia intrisa di sangue della Sicilia (quindi dell’Italia)? Si può pagare un prezzo per aggiungere un brandello di verità? Decidiamo quindi di “andare a vedere”. E rispondo a Salvo Riina chiedendo di spedire il manoscritto ma premettendo e ben specificando chi siamo, qual è l’identità di Melampo e che comunque in nessun caso saremmo mero stampatore di un manoscritto. Che volevamo vedere, insomma, e poi entrare nel merito di ogni fatto narrato.
Apro quindi il carteggio. Non trovo però nell’interlocutore grande voglia di esibire l’intero manoscritto. Procediamo via mail per un paio di settimane, nelle quali io continuo a dire chiaramente che per noi è  necessario leggere il libro completo. Alla fine mi arrivano solo due (anche se corposi) capitoli. Li leggo con ovvio interesse e forte curiosità. Innanzi tutto non sfugge che dentro a quelle pagine ci siano delle stratificazioni: il racconto di Salvo Riina, la penna di un ghostwriter, l’intervento di un avvocato.
I tre strati ci sono, si intrecciano ma si vedono tutti. Lascio le carte a qualche giorno di riflessione. Quando le riprendo in mano e le rileggo è chiaro che il libro non è pubblicabile. Trattasi di una storia senza storie. Ne emerge una vicenda di fatto negazionista e ininfluente. La storia di una famiglia “normale” in cui ci sono un padre, una madre, dei figli; una famiglia dove vengono trasmessi valori “tradizionali” e dove sostanzialmente accade quello che accade in una qualsiasi famiglia italiana. Non un fatto, non un nome, non una vicenda.
Non si può chiedere a nessuno – neanche al figlio di Riina – di rinnegare il padre. Sarebbe inumano. Ma qui non c’è traccia di alcuna presa di distanza. È tutto un girarci attorno, un ignorare, un non sapere. Un raccontare di una sorta di normalità che non risulta credibile perché non può essere credibile la storia di un bambino, poi di un ragazzino (quando Totò ‘u curtu viene arrestato il figlio Salvo ha 15 anni) che racconta come quotidiana banalità l’usar un nome che non è il suo, il cambiar paese, città, abitazione (senza neanche dire come, dove e quando). No, siamo d’accordo che il male quasi sempre è banale. Ma anche la banalità del male può e deve essere raccontata, non nascosta dietro una normalità apparente e strumentale.
Il libro poi è uscito – quasi tre anni dopo – per un altro editore con il titolo “Riina family life”. Fece un gran clamore e suscitò diverse interpretazioni e molte polemiche. Una su tutte la presentazione da Bruno Vespa con domande – pare – concordate. Ma questa è un’altra storia che andrebbe raccontata da un’altra parte.

Da mafie


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