L’eredità rivendicata e la memoria perduta

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di Franco La Torre

Quattro anni dopo la sua uccisione, nel maggio del 1986, nasce ad Alcamo, su iniziativa di Ino Vizzini, stretto collaboratore di mio padre e deputato regionale, il “Centro di studi ed iniziative culturali Pio La Torre”. Missione del centro è quella di valorizzare il patrimonio ideale e politico segnato dalla vita e dall’opera di Pio La Torre, realizzando e promuovendo studi, iniziative e ricerche originali riguardanti aspetti e problemi della Sicilia contemporanea.
Perché, come ha sottolineato il primo Presidente del Centro, Francesco Artale, nel suo discorso d’inaugurazione del Centro: “Il patrimonio lasciato da Pio La Torre […] appartiene a tutti i lavoratori, alla gente onesta, a tutti quelli che lottano e operano contro la mafia e contro lo sfruttamento, a tutti quelli che lavorano per una Sicilia libera e produttiva e per un mondo senza missili e senza guerre”.
Sono stati presidenti del Centro, dopo Artale, Saverio Lo Monaco, Gianni Parisi, Nino Mannino. Dal 2004 il presidente è Vito Lo Monaco.
Mia madre veniva invitata su e giù per l’Italia e non solo. Intitolazione di strade e di piazze, di scuole e sezioni di partito, dibattiti, incontri e conferenze. Il tema era caldo e molto sentito. La mafia non aveva smesso di colpire.
Dopo poco più di quattro mesi dall’omicidio di mio padre e Rosario, la sera del 3 settembre, venivano uccisi, in via Isidoro Carini a Palermo, il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, sua moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente Domenico Russo. Dalla Chiesa era arrivato a Palermo in occasione dell’omicidio di mio padre. Prefetto di Palermo ma senza quei poteri di coordinamento dell’azione antimafia dello Stato in Sicilia, che mio padre stesso aveva perorato gli fossero affidati, quando aveva incontrato Giovanni Spadolini, Presidente del Consiglio, pochi giorni prima di essere assassinato. Sempre a settembre venne approvata la legge Rognoni-La Torre, nata dalla fusione della proposta, che mio padre aveva depositato in Parlamento due anni prima, con il disegno di legge di Virginio Rognoni, ministro dell’Interno.
Pochi giorni dopo la strage di via Carini, il 6 settembre 1982, il governo Spadolini approvò il Decreto Legge che istituiva la carica di Alto Commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa ed il primo a ricoprire l’incarico fu il direttore del SISDE, i servizi d’intelligence civili, Emanuele De Francesco. Dopo, sempre dopo, che il sangue era stato versato, il sangue di coloro che si opponevano alla mafia e chiedevano mezzi adeguati per fare meglio.
Mamma aveva assunto, naturalmente, il compito di mantenere viva la memoria di papà. Ogni tanto poteva accadere che mio fratello o io la sostituissimo ma lei è rimasta in prima fila, almeno finché ne ha avute le forze, sino a pochi mesi prima di lasciarci, nel settembre 2009. Nel 1991, il PCI le propose di candidarsi alle elezioni dell’Assemblea Regionale Siciliana. Lei accettò, venne eletta e restò in carica sino al 1996. Considerava quell’esperienza contrastata. Rivestì il ruolo di vicepresidente della Commissione Antimafia di un parlamento regionale con il 60 per cento circa dei deputati inquisiti dei reati più vari.
A questo riguardo, aveva chiesto, al PCI prima e poi al PDS, un’azione volta alla moralizzazione, al rinnovamento, alla salvaguardia del più antico parlamento, minato da una crisi ed un degrado profondi. Non fu soddisfatta, perché tutto restava immutato, tranne qualche protesta verbale, senza conseguenze sostanziali, mentre ognuno manteneva il suo posto. Allora lasciò il gruppo del PDS, per aderire a quello misto.
I primi anni – successivi all’omicidio, i segretari del PCI e di ciò che da quel partito è stato generato, in occasione del trenta aprile, si facevano sentire, a voce o per iscritto e rilasciavano dichiarazioni alla stampa, ricordando la figura di Pio La Torre. Poi, hanno perso il ritmo, spero non la memoria.
All’inizio, mia madre la prese male e noi figli con lei. Poi capimmo o, almeno, ci convincemmo che la questione non riguardava la memoria di un singolo segretario ma il processo di sedimentazione della coscienza collettiva dell’organizzazione.
In effetti, riguardando indietro, lungo i trentasei anni che ci separano dall’omicidio, quella parte politica, che ne rivendica l’eredità, a mio parere, non ha fatto buon uso del lascito.

(18 – continua)

Da mafie


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