2017: l’anno di Donald Trump

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Per quanto la cosa possa turbare i nostri lettori, e a dire il vero anche chi scrive, il 2017 è stato senza dubbio l’anno di Donald Trump. Non soltanto perché il nostro eroe, insediandosi alla Casa Bianca con un discorso aberrante a Capitol Hill, ha dato inizio ad una delle peggiori presidenze della storia americana ma anche, e soprattutto, perché quello che volge al termine è stato più che mai l’anno del trumpismo. Il trumpismo delle accuse e degli insulti ai giornalisti, il trumpismo osceno di Weinstein, il trumpismo della prepotenza e della barbarie, il trumpismo degli insulti alle donne, il trumpismo del cinismo, dell’indifferenza e della cattiveria elevata a sistema. Un trumpismo perfido e strisciante anche nella politica italiana, sulla quale è opportuno sorvolare data la sua pochezza complessiva e la presenza di un governo al di sotto delle aspettative, benché guidato da un personaggio che ha avuto se non altro il merito di non essere Renzi, il che non è affatto poco.
Non basta, tuttavia, questo pur significativo aspetto caratteriale per rendere apprezzabile un operato che in poco o nulla si è distinto da quello del predecessore, oltretutto con l’aggravante di una linea politica securitaria e per nulla di sinistra sui migranti (peggiore di quella di Alfano) e di un’imbarazzante continuità su tutti i temi cardine di questa legislatura. Sui capitoli relativi alla libertà d’informazione e al contrasto a censure e bavagli, poi, la delusione è totale, specie se si considera che Gentiloni un tempo era uno degli esponenti politici più sensibili e attenti a questi argomenti mentre, una volta arrivato a Palazzo Chigi, è riuscito addirittura nell’impresa di rimandare l’ambasciatore italiano in Egitto, con buona pace dei diritti umani e della memoria concreta di Giulio Regeni.

Spiace dirlo, ma i diritti o si tengono per mano o non sono e questa legislatura, che almeno sul terreno dei diritti civili ha fatto registrare alcuni passi avanti, nell’ultimo anno ha visto un clamoroso regresso: basti pensare al già menzionato caso Regeni, con l’intreccio di violenza, barbarie e palese violazione del diritto imprescindibile alla libera informazione da parte di un governo dittatoriale come quello di al-Sisi, o alla mancata modifica di una riforma della RAI che ha contribuito a sgretolare ulteriormente il già fragile edificio di viale Mazzini, con annessi addii eccellenti a vantaggio della concorrenza.
Senza dimenticare la squallida fiducia sul Rosatellum, cui Gentiloni non ha avuto il coraggio di opporsi, e una Legge di Bilancio al di sotto del minimo sindacale, al punto che persino il ben intenzionato e tutt’altro che divisivo Bersani si è visto costretto a votarle contro.
L’unico momento di dignità, merito più di Mattarella che di Gentiloni medesimo, è stato rappresentato dalla conferma del non impeccabile Visco alla guida di Bankitalia, onde evitare che persino un’istituzione di quell’importanza e di quel prestigio finisse nel tritacarne di una campagna elettorale che si preannuncia fra le peggiori di sempre.

Duole, insomma, dover esprimere un giudizio tanto negativo nei confronti di un soggetto cui ci sentiamo legati da un sincero sentimento di stima e amicizia; tuttavia, proprio la stima e l’amicizia summenzionate costituiscono un’aggravante a carico di una personalità dalla quale ci saremmo aspettati ben altra condotta e ben altra autonomia di pensiero e d’azione.
Tornando al trumpismo, è sicuramente sulla scia del biondo d’oltreoceano che sono emerse figure come quelle della Le Pen o dei nuovi dirigenti di Alternative für Deutschland; per non parlare, poi, del giovane ed ineffabile presidente austriaco Kurz, le cui nomine e i cui propositi emanano uno stantio odore proveniente dal passato che ha nell’abbraccio al Gruppo di Visegrád sul tema dei migranti il proprio apice e il proprio elemento più inquietante.
Certo, la Francia ha scelto l’europeista Macron al posto della figlia di un reduce di Vichy: bene, ma non è che questo aspirante Napoleone senza epica costituisca una garanzia, visto e considerato che cerca in ogni modo di rinverdire i fasti di De Gaulle e del celebre imperatore ma finora è riuscito, al massimo, a guadagnarsi le copertine delle riviste patinate per via della sua coppia sui generis con l’affascinante Brigitte.
E se in Spagna stiamo assistendo al franchismo di ritorno di Rajoy, in Medio Oriente e in Corea del Nord si rischia l’esplosione di una polveriera finora dormiente ma pronta a trasformarsi in un inferno nel caso in cui l’inquilino della Casa Bianca dovesse proseguire nei suoi propositi devastanti, di cui il trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme, con annesso riconoscimento della città sacra alle tre religioni monoteiste come capitale di Israele, costituisce l’atto più grave e, al tempo stesso, più stupido. Cos’è, del resto, il trumpismo? È arroganza, prepotenza, incompetenza, cattiveria gratuita, ferocia spietata e pragmatismo spinto all’estremo, ossia le caratteristiche peggiori per qualsivoglia governante nonché le prime, purtroppo e da sempre, a fare scuola. Non sorprende, pertanto, che alcuni paesi satelliti degli Stati Uniti abbiano già annunciato di voler seguire la medesima strada, comprese quelle nazioni dell’Europa dell’est che, in nome dell’ostilità alla Russia di Putin, stanno sdoganando e normalizzando il fascismo.

Dieci anni fa, infine, a Rawalpindi, in Pakistan, dicevamo addio a una grande leader democratica come Benazir Bhutto. Dieci anni dopo, ultimo in ordine di tempo, diciamo addio a Gualtiero Marchesi, avendo dapprima salutato un galantuomo come Stefano Rodotà e altre figure straordinarie che senz’altro sarebbero state utili nel contrasto al trumpismo incipiente e, purtroppo, al momento, privo di argini adeguati.
Ci lasciamo alle spalle dodici mesi tragici, con la certezza che i prossimi non saranno migliori, anche se la speranza è l’ultima a morire, a cominciare dall’auspicio, necessario per le sorti dell’umanità, che Trump venga duramente sconfitto alle elezioni di mid-term e il Partito Democratico riesca a riorganizzarsi e a porsi in sintonia con le esigenze delle nuove generazioni. Ci aveva provato Sanders: ora il compito spetta ai milioni di ragazzi che lo hanno seguito e sostenuto, alla senatrice Elizabeth Warren e a quanti, nella sinistra americana, sono stanchi di una subalternità pressoché totale a Wall Street e ai princìpi cardine del liberismo selvaggio, peraltro ripresi da Trump nella sua recente riforma fiscale. In caso contrario, sarà la fine: dell’America, dell’Occidente e dei nostri sogni di pace, uguaglianza, democrazia e libertà.

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