Da Pasolini all’Ilva: dove sono nata

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Nel film “Il vangelo secondo Matteo”, Pier Paolo Pasolini scelse Massafra per farne la sua Cafarnao: insieme ad altre zone del Sud Italia, questo paese abbarbicato fra due gravine fu la convincente controfigura della terra brulla di Galilea. Mi piace pensare che a colpire lo scrittore fosse proprio la tenacia di un centro abitato insediato su un piccolo squarcio storto di crosta terrestre. Già nel 1951, in un articolo per “Il Quotidiano”, Pasolini aveva definito Massafra “fossile e incorrotta”: “fossile”, perché guardava alla parte antica del paese, dove il colore e la consistenza delle case si confondono facilmente con la pietra. E forse davvero, al tempo, “incorrotta”. Del resto l’Italsider, poi ben più nota come Ilva di Taranto, sarebbe arrivata solo 9 anni dopo, a 16 km di distanza in linea d’aria. Dal 1960 l’acciaieria avrebbe portato con sé ciminiere fumanti veleno e, allo stesso tempo, migliaia di posti di lavoro per le famiglie di Taranto e provincia. Solo oggi sono circa 14mila gli occupati dell’Ilva (11mila diretti, 3mila nell’indotto). Nella maggior parte dei casi, nuclei familiari monoreddito.

Io qui ci sono nata e non ci ho vissuto, se non per breve tempo. Torno ogni anno per le vacanze di Natale e gli altoforni dell’Ilva li vedo sempre e solo da lontano, mentre attraverso la strada statale 7 che collega Massafra e Taranto, dove prenderò un treno per tornare verso Nord. Questa volta, però, prima di partire, mi sono fatta accompagnare nei dintorni dell’impianto; e mi è passata la voglia di postare cartoline paesaggistiche. Sarà perché, in una giornata in cui il cielo è un blocco grigio senza sfumature, il profilo fumoso dell’acciaieria è ancora più inquietante.

Io qui ci sono nata e non ci ho vissuto, ma alcuni dei miei parenti all’Ilva ci lavorano. Mio zio, ad esempio, che all’interno dello stabilimento fa il meccanico per i mezzi di trasporto merci: auto, ma anche treni, persino navi. «Ma come treni?», chiedo. Quello che non avevo ancora capito è che l’Ilva è una città: 15 milioni di mq, comprensivi di uno sbocco portuale. Più del doppio della stessa Taranto. Zio dice che «quello che importa agli operai è ricevere la busta paga il 28 di ogni mese». Ma è sempre lui, che poco prima sentivo parlare in dialetto, a ricordarmi dei “wind days”. Un’ordinanza del comune di Taranto stabilisce che nei giorni di vento le scuole del rione Tamburi – il più vicino all’impianto – debbano rimanere chiuse per mettere al sicuro i bambini dal sollevamento delle polveri dell’Ilva. E così, con due parole inglesi, vengono definiti i giorni in cui si ferma l’istruzione, perché non si può fermare la produzione. Da quando l’ordinanza è stata emessa, il 24 ottobre 2017, di “giorni ventosi” ce ne sono già stati otto nel giro di un mese.

Ho lasciato la Puglia da 24 ore e continuo a leggere notizie dai titoli simili: nei prossimi giorni si deciderà il futuro dell’Ilva. Il riferimento è al braccio di ferro fra il ministro dello Sviluppo economico Calenda e il governatore della Puglia Emiliano che ha impugnato con un ricorso al Tar di Lecce il decreto ministeriale sul piano ambientale disposto per l’acciaieria. Secondo la regione Puglia, il «decreto consente all’ILVA di proseguire sino al 23 agosto 2023 l’attività siderurgica nelle stesse condizioni illegittime e non più ambientalmente sostenibili addirittura precedenti alla prima AIA nonchè alle BAT (best available techniques) per la produzione di ferro e acciaio pubblicate nel 2012». Dall’altra parte, ministero e sindacati temono che il ricorso faccia scappare il compratore, ovvero Arcelor Mittal. Un’eventualità che metterebbe a rischio migliaia di posti di lavoro e i 2,2 miliardi di investimenti promessi dal colosso siderurgico, di cui più di un miliardo per gli interventi ambientali.

Non so dire da che parte stia la ragione: è troppo difficile stabilirlo in un luogo dove l’espressione «ricatto occupazionale» è tutto tranne che una retorica fuori moda. Però un’ultima osservazione, meno sentimentale, la prendo dalle conclusioni del report “Studio di coorte sugli effetti delle esposizioni ambientali sulla morbosità e mortalità della popolazione residente a Taranto” (2016): «La città di Taranto (e i due comuni limitrofi Statte e Massafra) presentano un quadro sociale variegato con presenza contemporanea di aree ad elevata emarginazione e povertà ed aree abbienti. A questa stratificazione sociale si associano differenze importanti di salute (e di probabilità di morte). Le classi sociali più basse hanno tassi di mortalità e di ricorso al ricovero ospedaliero più alte di circa il 20% rispetto alle classi sociali più abbienti. (…) Sono emerse delle associazioni chiare tra attività lavorativa ed eccessi di mortalità per tumore, in particolar modo tumore dello stomaco, del polmone, della pleura e del rene». Credo che queste righe si traducano all’incirca così: di “classe sociale”, a Taranto, si muore ancora nel 2018. Un promemoria di una storia nota, e a volte dimenticata.

P.S. Mentre cercavo notizie su Pasolini e la Puglia mi sono imbattuta in quest’articolo (http://www.minimaetmoralia.it/wp/storia-di-taranto/) che ricostruisce con assoluta completezza il rapporto fra Taranto e l’Ilva. È di Alessandro Leogrande, che se n’é andato qualche mese fa. Troppo presto, quando c’era ancora bisogno di giornalisti come lui.


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