Palazzeschi e la favola nera

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“Sorelle Materassi” da Palazzeschi. Adattamento di Ugo Chiti. Regia di Geppy Gleijeses. Con Lucia Poli, Milena Vukotic, Marilù Prati, Sandra Garuglieri. Teatro Quirino di Roma

Leggo su un social net che più di un lettore di Palazzeschi (di per sé già un merito) propone di elevare “Sorelle Materassi”  a Zie benefiche di tutt’Italia (presumo per perdigiorno e “sdraiati”).

Non arrivo a tanto, non lo trovo un gioco corretto, ma testimonio con piacere (personale, non d’ordinanza) della gradevole arguzia, della sapida tenerezza mista ad irriverenza (con spruzzi di elegante ‘perfidia’) con cui Chiti e Gleijeses danno flatus all’impeccabile, sapida, irriverente (ma come potrebbe esserlo un bozzetto, cartone animato d’epoca) versione scenica di un romanzo vetusto (1934) ma di qualche attualità fruibile.

Soprattutto in direzione del rapporto di sfruttamento e (inter) dipendenza economico-affettiva che incolla certi  “bellimbusti” di famiglia (agiata o meno)   all’entourage degli affetti, delle diseducative blandizie che mai lo svezzeranno.

Cosa racconta Palazzeschi, fra rigagnoli di tardo verismo e accurati incantamenti da ‘fanciullo’ solingo (stile primario delle sue poesie)? Tentiamo una sintesi.   Abilissime nel ricamo e dotate di ottima clientela, Teresa e Carolina sono riuscite, negli anni, con dedizione e fatica, a risalire la china dell’indigenza (nella periferia rurale di Coverciano,  inizio ‘900) e riscattare da debiti e ipoteche i beni dissipati, anni prima, da un padre incosciente, donnaiolo e scialacquone (sino alla conseguente morte della madre), mettendo da parte un cospicuo gruzzolo sostanziato in quel “libretto postale” emblematico (in età umbertina) di parsimonia e solidità futura. Tempi andati, appunto…

“Non hanno vizi né svaghi. Il loro divertimento sta nel parlottare e sussurrare e rimembrare mentre lavorano di ago e filo su un pezzo di stoffa che trasformeranno in capolavoro”- sintetizza benissimo Osvaldo Guerrieri in un recente scritto -. A volte rimbrottano la fantesca Niobe, altre volte bisticciano con Giselda (la terza sorella, volitiva e che fa storia a sé), depositaria di ribellione poiché “con chiunque parli, gli punta addosso un dito ammonitore, anzi accusatore”.

E poi, le Materassi, si sa, “hanno un cuore d’oro”. Con l’inconveniente che il primo a saperlo, ed approfittarne, è lo sciagurato nipote Remo, di cui la più ingenua Carolina è sommessamente (platonicamente) invaghita, mentre la più concreta e ferrigna Teresa tenta inutilmente di stare alla larga e, possibilmente, sbarazzarsi, mettere alla porta (e alla gogna del paese). Ed invece, per dare un’idea, sarà Remo che, per estorcere denaro, chiuderà le zie in cantina ‘di punizione’.

Già sappiamo (o intuiamo) che l’arrendevolezza al perdigiorno, il cedimento alle sue pretese da sanguisuga a caccia di prestiti, avalli, fideiussioni e cambiali a strozzo ridurranno le Materassi sul lastrico, dunque “costrette” (a tarda età) a ricominciare da zero (per sopravvivere, con la vista che ormai traballa) l’antico lavoro di ricamo e bottega: questa volta rivolto ad una clientela più modesta e animata da piccole velleità di portafoglio. Difficile “farsi valere” quando si è in condizioni di bisogno, di indigenza “che non salva più nemmeno le apparenze”.

Anche se tramandata da un lieve, calligrafico film di Ferdinando M. Poggioli (1943), vispamente  interpretato da Irma ed Emma Gramatica (con Massimo Serato nel ruolo del nipote, dunque, ed almeno, apprezzabile in ambito di antologia del cinema italiano);  cui, ad inizio anni settanta, fece sponda un accurato ma non acuminato sceneggiato televisivo diretto da Mario Ferrero (con la Ferrati, Nora Ricci, Ave Ninchi e la stupenda Morelli, affiancate da Giuseppe Pambieri e la comparsata di un esordiente Benigni, nell’ “epifania” del villanello ripulito e fumantino), quella delle Materassi resta, a mio parere, una vicenda tristissima e tremenda, storia di un declino e di una generosità perdente ben traducibile in “favola nera” e “teatro della crudeltà” (cui Artaud è beninteso lontano sia per teorie, sia per poetica dell’ “efferato”).

Particolare che, in una sorta di operazione sincretica, lepida, decantata  (ispirata  quindi alla tradizione toscana del “conversar crudele”, nella sua peculiare duplicità  di restituire, con grazia e  suggestivo eloquio, le fole più orride e paurose: dal “Decamerone” a “Pinocchio” – per farci intendere -) mi sembra impreziosire l’allestimento attualmente in scena al Quirino di Roma. Che  è poi cesellato da scarne, efficaci illustrazioni scenografiche (con uno splendido finale, quasi ‘gotico-cechoviano’, descrivibile come “Giardino dei ciliegi”, ove la desolazione è alleviata da un esile soffio di speranza, innegabile alla “brava gente”), a loro volta  illuminate da intensità  ‘decrescenti’, crepuscolari, di grande accuratezza cromatico-pastellata, in sincronia con l’involuzione degli accadimenti.

E, sopra ogni cosa, impreziosita dalla memorabile resa di Lucia Poli, Milena Vukotic e Marilù Prati (ciascuna impagabile nel tratteggiare, a punta secca, riluttanze e cedimenti dei rispettivi caratteri). Alla pari  di una  eccelsa  professionista quale Sandra Garuglieri, nel ruolo della (opima, sensuale) fantesca Niobe, e dall’efficace, ‘prepotente’ Gabriele Anagni – acconciato alla maniera di un Giacomo Puccini da ‘patacca’, con giubbotto di campagna e cappello a larghe tese, ad ulteriore dettaglio di una fatuità nefasta -.

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“Sorelle Materassi” libero adattamento di Ugo Chiti dal romanzo di Aldo Palazzeschi

Regia di Geppy Gleijeses,  scene di Roberto Crea,  luci di Luigi Ascione, costumi di Ilaria Salgarella, Clara Gonzales, Liz Ccahua coordinate da Andrea Viotti

musiche di Mario Incudine  Con Lucia Poli, Milena Vukotic, Marilù Prati, Sandra Garuglieri, Gabriele Anagni, Gian Luca Mandarini, Roberta Lucca. Teatro Quirino, Roma


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