“Dove cadono le ombre”. La pena insostenibile di sentirsi sbagliati

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Presentato alla 74^ Mostra del Cinema di Venezia, sezione Giornate degli Autori
Regia di Valentina Pedicini. Con Federica Rosellini, Elena Cotta. Distribuzione Fandango 2017

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C’è una costante penombra verdognola o azzurrina, ovattata, nelle stanze e nei corridoi infiniti dell’Istituto per anziani svizzero dove si avvita ininterrottamente la serpentina temporale di Dove cadono le ombre. Abbiamo la sensazione di muoverci, con un vago senso di allarme o timore, dentro le particelle liquide dell’aerosol, di sentire gli odori onnipresenti di farmaci, medicamenti, brodo caldo, abiti e scialli portati troppo a lungo.

Con una timidezza impotente osserviamo una donna al tramonto della vita cadere seguendo il fantasma di un uomo amato in gioventù. E piangere, come una bambina, per il ginocchio ferito e ancor più per la consapevolezza della propria solitudine. Perché siamo tutti vittime della memoria, per lo più incapaci di andare avanti, di superare il dolore (della perdita, di qualsiasi perdita, che si tratti degli affetti, dell’autonomia fisica, della propria identità). Anche Anna, che lavora come infermiera e fisioterapista nella casa di riposo, vive murata in un dolore che le si stringe addosso di giorno in giorno, di momento in momento. Il dolore di essersi sentita rifiutata, diversa, sbagliata, per tutta l’infanzia a causa dell’appartenza all’etnia jenisch, e rinchiusa insieme a tanti altri bambini (il genocidio, reale e sconosciuto, venne attuato nella civile Svizzera dal 1926 al 1986) in quello stesso Istituto, un tempo ufficialmente orfanotrofio, anche se di orfani fra quei bimbi non ne figurava neppure uno.

Tolti alle famiglie, venivano sottoposti a torture ‘educative’, per esempio il bagno nei cubetti di ghiaccio, nel tentativo malato di correggerne la cattiva indole originata dal patrimonio genetico ‘inferiore’, e a esperimenti di eugenetica, nonché sottoposti a pratiche mediche varie come la sterilizzazione, il coma insulinico e altre amenità di marca nazionalsocialista.

La ragazza, cortese con gli anziani ospiti ma inevitabilmente fredda, perché priva dell’alfabeto del corpo necessario  a esplicitare un’emozione, si dibatte come una cavia, oltre che nella sofferenza, in un senso di colpa ancora più grande che la costringe a rimanere fra quelle mura, aggrappata al passato.

I bambini sentono un disperato, primario, bisogno di sentirsi accolti, di far parte di qualcosa. E Anna, dotata di tratti fisiognomici ariani, aveva accettato la protezione di Gertrud, il medico posto alla guida del progetto di genocidio. Accettato la protezione e insieme la sfida della donna a diventare forte, diversa dai suoi compagni, degna della stima di un’etnia superiore; era diventata allieva di Gertrud, fino ad assisterla durante le pratiche mediche. E tutto questo, adesso, le grava sul cuore come una pietra pesantissima. La pena che si autoinfligge, come espiazione e riscatto, è di cercare ostinatamente, nel parco dell’istituto, il corpo dell’amatissima amica Franziska, che crede sia stata uccisa molti anni prima proprio da Gertrud e in quello stesso luogo sepolta.

L’arrivo nella casa di riposo di Gertrud, anziana e malata, giunta lì proprio per cercare Anna, per riallacciare quel lontano rapporto, imprime alla narrazione un ritmo più serrato e cattivo. Gertrud provoca Anna con frasi di sottile crudeltà, le rimprovera di non riuscire a dimenticare il passato, rivendica e difende le proprie azioni. Anna, esasperata, la sottopone allo stesso supplizio patito da bambina: il bagno gelato. Non per crudeltà, ma per rabbia e disperazione. Non sa ancora che i carnefici considerano di aver ottenuto il loro scopo quando le vittime di un tempo riproducono gli stessi comportamenti efferati. Sei come me, le dice Gertrud mentre si trova immersa nella vasca, rivolgendole uno sguardo duro e trionfante in cui scintilla, azzurra e tangibile, l’essenza stessa del Male (Elena Cotta, Coppa Volpi alla Mostra di Venezia 2013 per Via Castellana Bandiera di Emma Dante, si produce in una rappresentazione insinuante e caparbia, memorabile, delle tecniche manipolatorie). Persino Anna ne è convinta, ma così non è.

Sarà la morte dell’anziana, inerme signora convinta di aver ritrovato in Anna la madre perduta, una madre che l’avrebbe portata di nuovo a pranzo sul mare, a riportare la ragazza entro una tenerezza umana che pensava le fosse stata sottratta per sempre. La lunga sequenza del lavaggio post-mortem di quel corpo vecchio e informe, un blocco unico, è la più struggente e densa del film: non è possibile distogliere l’attenzione dalla delicatezza con cui la ragazza passa spugne e salviette sulla pelle sfigurata dalle macchie del tempo, sulle gambe offese dalle vene sclerotizzate.

Arriverà anche a superare il risentimento e sollevare fra le braccia Gertrud, svenuta per un malessere. A portarla in una doccia e abbracciarla sotto il getto d’acqua, come una figlia.

Potrà persino dire addio, stavolta sul serio e in maniera definitiva, a Franziska, non uccisa fisicamente bensì adottata da Gertrud, quindi uccisa nell’anima. Resa pragmatica, avida, fatua, indifferente, finge di non riconoscere l’amica d’infanzia, e trova nei motivi per i quali ha soppresso le proprie origini e la propria identità la forza di nascondere le lacrime che pure le inondano gli occhi.

Se ne va, lasciandosi alle spalle Anna (Federica Rosellini), che le aveva portato il loro pupazzo preferito e che, in quel preciso istante, si libera dolorosamente del peso dei ricordi.

Valentina Pedicini, documentarista di valore, compone un kammerspiel austero e di intensità implacabile, che non avrebbe sfigurato nella sezione principale della Mostra, al posto di qualche ingombrante e ombelicale bluff “d’autore” (vedi Foxtrot).

luciatempestini0@gmail.com 


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