Paolo Borsellino e Giovanni Falcone continuano a riscaldare il cuore

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25 anni dopo sulla morte di Falcone e su quella di Paolo Borsellino sappiamo molto, ma certamente non sappiamo tutto. Così è anche per molte vicende degli anni di piombo, a cominciare dal caso Moro, le stragi di piazza Fontana a Milano e di piazza della Loggia a Brescia. Come non sappiamo la verità su quella vicenda assai tragica e complessa che fu la battaglia tra lo Stato le Brigate Rosse. La verità giuridica che ci hanno consegnato le aule giudiziarie spiega molto, ma certamente non spiega tutto. trattativa politica. Nel caso di Paolo Borsellino  oramai sappiamo che ci fu una trattativa tra Stato e mafia e che lui si oppose. Fu questa la causa della morte? O sarebbe stato ucciso comunque? Di certo c’è che la mafia considera intollerabili le proprie sconfitte e uccide chi “esagera”, chi colpisce troppo o troppo a lungo. Chi turba gli equilibri non può essere tollerato a lungo. Falcone, Borsellino, Chinnici, Livatino, La Torre, Mattarella, Dalla Chiesa rompevano gli equilibri mafiosi e la antica convivenza tra mafia e poteri pubblici. Perciò sono uccisi.  Dopo la caduta del muro di Berlino Falcone e Borsellino capiscono che Cosa Nostra si avvia a cambiare strategie e interlocutori e per questo vengono uccisi. Perciò dietro quei due omicidi c’è un’intelligenza “politica”, ancorché messa al servizio della criminalità organizzata. Non a caso nella stessa stagione vengono assassinati anche Lima e Salvo. Cosa Nostra fa fuori il garante dei contatti politici e il garante dei contatti finanziari, insieme ai due magistrati più capaci e coraggiosi. Così la mafia taglia i ponti con il passato, preparandosi alla Seconda Repubblica. La mafia si occupa sempre del futuro, non del passato.

Questo è ciò che sappiamo. Ma se il 23 maggio del 1992 muore Falcone con un “attentatuni” e se è noto a tutti che parte del tritolo arrivato a Palermo è per Paolo Borsellino come è possibile che non si riuscì a salvare almeno lui? Se “le pietre raccontano” che  dopo Capaci l’evidenza del pericolo non ha certo bisogno di altri elementi come  mai non fu disposto nemmeno il divieto di parcheggio sotto casa della madre del giudice più esposto d’Italia ? Se tutti sapevano che la domenica andava lì era davvero così difficile prevedere ciò che poi successe ? Perché Borsellino non fu informato delle testimonianze di  un pentito di nome Gaspare Mutolo (la voce più importante tra i pentiti di Cosa Nostra a sostenere le forti contiguità tra mafie e esponenti di spicco dello Stato)  che vuole parlare con lui e che lo avvisa dell’attentato il venerdi, solo due giorni prima della strage? Borsellino non ne sa nulla perchè il suo capo, il dottor Giammanco, non lo ha informato. La mattina del 19 luglio 1992, domenica, alle sette, ha riferito Agnese Borsellino alla Corte d’Assise di Caltanissetta, “mio marito ricevette a casa una telefonata del procuratore Giammanco che gli comunicava di aver deciso di affidargli le inchieste sulla mafia a Palermo”. “Così la partita é chiusa”, dice il procuratore Giammanco. “Così la partita è aperta”  risponde Paolo Borsellino. Verrà ucciso nel pomeriggio dello stesso giorno. Sono passati venticinque anni, eppure nuovi colpi di scena hanno aperto squarci di luce su queste vicende su cui non c’è ancora completa chiarezza. La sua, come hanno raccontato alcuni pentiti, era una morte programmata da tempo, ma anticipata con una “premura incredibile”. Perché Totò Riina aveva detto: “Bisogna scavalcare un muro”. E quel muro era Paolo Borsellino.

“La tempistica della strage è stata certamente influenzata dall’esistenza e dalla evoluzione della cosiddetta trattativa tra uomini delle istituzioni e Cosa nostra” scrissero i pubblici ministeri nell’atto d’accusa che concluse quasi quattro anni di indagini. Il presunto tradimento di un generale dei carabinieri suo amico aumentò lo sconforto del magistrato, che sapeva di andare incontro alla morte. Secondo il colonnello dei carabinieri Umberto Sinico, inoltre, Borsellino chiese che fosse lasciato “qualche spiraglio” alla sua sicurezza, perché altrimenti sarebbe stata colpita la sua famiglia.  Il 13 luglio, sconsolato, dichiarò: “So che è arrivato il tritolo per me”. Alla moglie Agnese disse: “La mafia mi ucciderà quando gli altri lo decideranno”. E il 17, fra lo stupore di tutti, salutò uno a uno i colleghi abbracciandoli. «L’ultimo venerdì prima di morire Paolo interroga ancora Mutolo e ne esce sconvolto”, come racconterà sua moglie Agnese. Dà appuntamento al pentito per il lunedì successivo, ma proprio quella domenica lo ammazzano. Il tema di quel colloquio mai avvenuto sarebbe stato proprio sui rapporti tra Cosa Nostra e pezzi dello Stato». Il 19 luglio faceva molto caldo a Palermo. Il magistrato decise di andare a trovare la madre in via D’Amelio. Due minuti prima delle 17, l’esplosione dell’autobomba che uccise lui e 5 uomini della scorta si sentì in tutta Palermo. “È tutto finito” fu il commento di Antonino Caponnetto.  Ma lo stesso Caponnetto, negli ultimi anni della sua vita, girò l’Italia per raccontare nelle scuole la storia dei due eroi, affermando: “Le battaglie in cui si crede non sono mai battaglie perse”.  E Caponnetto venne anche a Teramo il 3 dicembre 1992 per parlare  ai giovani , in un gremito teatro comunale, di Giovanni e Paolo. E possiamo dire che da quel grido  È tutto finitonasce il Premio nazionale Paolo Borsellino che in questi 25 anni, con coerenza e costanza, con alterne fortune, autofinanziandosi, a volte bene a volte male, ha ricordato queste due figure di uomini che hanno amato il proprio paese. Hanno amato la vita sino a sacrificarla.

Giovanni e Paolo sono due italiani entrati nella storia della nazione come pochi altri in precedenza. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non sono solamente nella storia, ma esistono ancora nel presente e continueranno ancora a lungo a fare parte del futuro del paese. Perché vivono, e vivono perché sono gli ultimi uomini credibili che il popolo italiano abbia conosciuto dal dopoguerra. La forza e la caratura di tali personaggi con la robustezza carismatica dei loro sorrisi trasparenti li rendono presenti nelle nostre vite. Per questo è giusto che il Premio Nazionale Paolo Borsellino continui la sua opera nelle scuole. Non è retorica, inutile e stupido farne dopo tanti anni dalla loro scomparsa; la retorica, piuttosto, lasciamola a chi nelle istituzioni da venticinque anni ha ‘slalomato’ in imbarazzanti celebrazioni senza mai averli amati ed anzi avendoli abbandonati, isolati e delegittimati in vita. Giovanni e Paolo continuano a riscaldare il cuore, a trasmettere l’emozione della speranza ed il coraggio di credere che si possa fuoriuscire dalle sabbie mobili del malaffare e della schiavitù a quelli che li hanno amati e li amano, quelli che sono cresciuti con il loro esempio e seguendo il loro modello di vita; coloro per i quali si erano impegnati nel disegnare un paese democratico, libero e giusto e per i quali infine hanno dato la vita.


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