‘Giornalisti di intelligence’, mercoledì 12 luglio in Fnsi tavola rotonda sul futuro della professione

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Partendo dal libro del professor Michele Mezza ‘Giornalismi della rete, per non essere sudditi di Google e Facebook’, si aprirà un dibattito sul cosiddetto ‘giornalismo senza giornali’. Appuntamento alle 17 nella sala ‘Walter Tobagi’ della Federazione della Stampa.

di Michele Mezza*

Di solito i libri si presentano, e il più delle volte si dimenticano. Questa volta, mercoledì 12 luglio alle 17, il vertice della FNSI si propone di usare libro che ho pubblicato due anni fa, “Giornalismi della rete, per non essere sudditi di Google e Facebook” (Donzelli editori) per un ragionamento sul cosiddetto “giornalismo senza giornali”.
Il libro è un pretesto, una semplice opportunità, per aprire un cantiere di ricerca. In quel testo azzardavo, come spesso mi capita, alcune previsioni sui processi in atto, e cercavo proposte concrete.
La costatazione di partenza era che la nostra categoria vive una singolare crisi di sussistenza proprio nel momento in cui la sua cultura e il suo linguaggio, cioè l’organizzazione dell’informazione, esplode in tutti i gangli sociali. Come può essere che ad una diffusione molecolare dell’informazione corrisponda un ripiegamento drastico degli informatori?

Scriveva un grande scrittore polacco, Stefan Themerson, che «il tempo tramuta annunci pubblicitari in poesie, e poesie in annunci pubblicitari, perché il tempo muta il lettore, e dipende dai lettori che una cosa sia un annuncio pubblicitario o una poesia». Esattamente quanto ci sta accadendo intorno. Non è il profluvio di tecnologia che sta travolgendo il nostro mestiere, ma è l’evoluzione dell’umanità a mutare la domanda di informazione.

Per questo sarebbe il momento che proprio chi, come i giornalisti, vive osservando il mondo, si cominci a leggere con attenzione il processo di trasformazione dei lettori e degli spettatori. Cominciando a capire che la rete non è un media, ossia non è la semplice trasposizione in digitale delle categoria fondamentali della professione, a cominciare dal rapporto commerciale, dal prezzo delle notizie, fino alla forma dell’offerta, ossia uno spazio chiuso e ad accesso condizionato, come il giornale online.

La rete è la più pervasiva protesi della vita, in cui, questa è la vera novità, si vive proprio scambiando informazione. In questo passaggio, probabilmente, si annida una delle ragioni delle difficoltà che si incontra nella transizione su web della forma giornale.

La partecipazione e condivisione è oggi, lo spiegava fin dagli anni ’30 Walter Benjamin quando analizzava la tecnologizzazione delle opere d’arte, il motore del processo di diffusione delle notizie. Il fatto che fonti intime e vicine siano più utilizzate delle tradizionali fonti autorevoli e lontane ci dice che i social network non sono megafoni travestiti, come ancora molti partiti pensano, ma comunità dove l’informazione circola, nel senso più letterale del termine e non si disvela. In questo contesto dobbiamo ritrovare una nuova missione del giornalista che non si esaurisca nel semplice dualismo fra fatti ed opinioni.

Ormai un terzo incomodo batte alle nostre porte: il sapere. Sempre più notizie quotidiane sono incomprensibili senza un corredo di saperi che ne possano dare ragione e conto. Ricordiamo qui la straziante vicenda del piccolo Charlie. Quanto in un ambiente di alluvionali informazioni e commenti che ci circonda possa essere persuasivo un articolo che si limiti su quel tema a dare conto delle varie posizioni, dalla famiglia, ai giudici ai sanitari ai filosofi? Mentre il tema nevralgico che è rimasto per vari giorni sullo sfondo riguarda lo stato reale della ricerca su quell’aspetto specifico di malattia genetica. Un’informazione che può essere aggredita solo sulla base di una reale dotazione di conoscenza che non può essere nemmeno delegata all’esperto di turno intervistato a piè di pagina.

Questo per capire come mutino i profili professionali e le conseguenze organizzazioni redazionali. Ma l’altro aspetto che la FNSI vuole indagare nel workshop di mercoledì 12 riguarda quello che nel mio libro definisco “giornalismo senza giornali” ossia le nuove declinazioni di attività giornalistica che stanno diffondendosi in ambiti esterni ai perimetri editoriali.

Penso ad esempio a tutte quelle tecniche di organizzazione di piattaforme che abilitano informazioni veloci, come la mobilità nelle smart city, o l’assistenza personalizzata nel sistema ospedaliero, o le relazioni con professionisti nell’associazionismo, o ancora la comunicazione diretta con i propri clienti delle aziende.

Insomma esiste oggi un giornalismo diffuso che non è riconosciuto, né organizzato, come tale e che non può non essere tema di una riflessione, anche sindacale, nel momento in cui la categoria si vede falcidiata nei suoi assetti tradizionali.

Io penso che già venti anni fa noi come giornalisti perdemmo una battaglia strategica quando consegnammo agli ingegneri il mondo dell’informatica. In una famosa lettera del 1939 a Vannevar Bush, il più geniale sociologo americano, Claude Shannon, il padre dei sistemi dell’informazione, che con Turing contribuì alla decifrazione del sistema Enigma per il contro spionaggio britannico nel corso della seconda guerra mondiale, spiega come e perché il termine “Intelligence” in inglese indichi contemporaneamente comprensione e informazione, e indica come su quella via si sarebbe sviluppata una scienza di confine fra comprensione e informazione.

Per decenni noi abbiamo ignorato quel tema, oggi l’intelligence bussa alle nostre porte e ci ricorda come sia essenziale che sia l’informazione a guidare la comprensione. Non a caso la BBC da anni ha allestito strutture di ricerca per l’automatizzazione dei suoi sistemi editoriali guidati da giornalisti.

L’evoluzione tecnologica sta rendendo sempre più automatica la programmazione del codice e sempre più pregiata la pianificazione dei linguaggi che i sistemi digitali devono interpretare: questo vale appunto per una smart city, per un sistema artigianale 3D, per una piattaforma di eLearning universitaria.

Riconquistare il centro di quella scena, ricongiungendo funzioni e professioni al ceppo dell’informazione è oggi forse l’unica possibilità per rimanere soggetti sensibili ed autonomi nella guerra delle notizie.

*Michele Mezza è giornalista e docente di Culture digitali all’Università Federico II di Napoli


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