Se la rivoluzione è un dogma laico….

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Al Teatro Argentina di Roma, la stagione si completa con l’ambizioso, vigoroso “La morte di Danton” di Buchner, regia di Mario Martone (di nuovo in tournée dal prossimo autunno)

-La Rivoluzione Francese è la Soglia della modernità malata, l’avvento della barbarie, la perdita della pietas (Anna Maria Ortese)
-La Rivoluzione è un aquilone. Sai che non starà sempre in vetta, che qualche vento avverso lo abbatterà. Ma non si può fare a meno di amare, rincorrere gli aquiloni (poeta anonimo)
-Per resistere a se stessa, la Rivoluzione dovrebbe essere permanente. Cioè farsi tensione, vocazioni etica, non imponibile a nessuno perchè inconciliabile con il libero arbitrio. Per resistere nel tempo la Rivoluzione si fà quindi regime, apparato, burocrazia, delazione. Snaturando la sua indispensabile natura-struttura di equità e libertà per l’uomo e la società (Noam Chomsky)

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Nel più bello, anzi brutto, della rivoluzione global-tecnologico-strozzina che (ignari e precari del “che ne sarà di noi?…polvere alla polvere”) durerà almeno per tutto il secolo in corso, proviamo a ragionare di Rivoluzione con metodo, senza accensioni ideologiche e nemmeno sconforti da generazione perdente.

Ad iniziare dalla semplice constatazione che, con molta probabilità, idea e prassi della medesima sono ‘conquiste’ di era moderna (18° sec.  dintorni), mentre nei tempi passati fu tutto un ribollire di tumulti, insurrezioni, guerriglie, regicidi e cambi di guardia (da Eschilo a Shakespeare non mancano gli esegeti-poeti), incastonati in quell’alveo leggendario e insindacabile che inizia dalla missione mistica di Mosè in rivolta contro l’Egitto per poi esaltarsi, più prosaicamente, in Spartacus terrore del patriziato romano e  Robin Hood dei Potentati d’Inghilterra.  Tralasciando (volutamente) i tanti Masaniello, Vespri siciliani, Cola di Rienzo e Peppa la Cannoniera, di cui pullulano le cronache “regionali” e di tanti “regimi”,  a comune denominatore della credulità e fuoco-fatuo del ribellarsi  senza “mezzi di produzione” e gramsciano possesso di strumenti culturali propositivi ed antagonisti.

Ad un principio di Rivoluzione attendibile, analizzabile con le lenti  della politologia e non del mito, si arriverà infatti con quella Francese e, oltre un secolo dopo con quella Russo-Sovietica, entrambe plasmate sulla carismatica presenza di leader, strateghi, ideologi, esecutori (spesso di lavoro sporco). E dall’inedita, innovativa, ambigua connotazione di Partito politico, bisognevole di esprimere una sua “rappresentanza” al Potere, che sarà vigore  e sventura “delle avanguardie e della conservazione”: con  inesorabile, cartesiana regolarità.

Non sappiamo se Buchner, vissuto poco più di vent’anni, a inizio 800, genio della scrittura e della ricerca scientifica (insigne anatomista), avesse conoscenza ed intuito per  anticipare le tediose osservazioni del presente. Sta di fatto che tutto l’ingente spettacolo desunto da  Mario Martone da “La morte di Danton”, quegli strumenti (di critica e disillusione) li  dà per acquisiti – quindi adatti  ad essere il  paradigma di una valutazione-concentrazione della Storia (che fu e che verrà) quale macchina celibe alla quale ci si sforza, per approssimazione, di dare un senso. Nonostante elementi e forze in campo (sopraffazione, sottomissione, egolatria, fanatismo) siano sempre eguali  a se stesse,  cambiando al massimo di costume, postura  e contesto uomo-polis.

Scritto in sole cinque settimane, tra il gennaio e il febbraio del 1835, da un “genius” post-adolescenziale  in fuga dalle autorità dell’Assia (dove era stato coinvolto in una rivolta locale), “La morte di Danton” (che anticipa  di due anni il più celebre “Wojzeck” e di uno appena la fiaba filosofica di “Leonce e Lena”)  ha il suo perno  sulla contrapposizione tra i due protagonisti di una tragedia collettiva:  compagni prima e avversari in seguito, entrambi destinati alla ghigliottina a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro. Ed in linea con quel grumo di pensiero su cui Martone lavora almeno dal tempo di “Noi credevamo”, ovvero   l’inevitabilità con cui un moto di popolo finisce per divorare se stesso. E una sommossa nata per i più “nobili ideali” diventare spietato regime. O dissoluzione, ‘ritorno a casa’ di vittime e profittatori.

Immagini scandite, nel tempo e negli spazi a venire, dai  “Dieci giorni che sconvolsero il mondo” (Russia, Rivoluzione d’Ottobre), dalle utopie tradite di Castro e della Rivoluzione cubana (rispetto all’integralismo messianico di Che Guevara), dalla degenerazione dei Soviet in comitati d’affari, morte d’esportazione (come nel caso di Trotskj) e incresciosa spartizione del pianeta in aree di influenza (nazismo, Yalta, imperialismo yankee, esportazioni necrofile di democrazia…).

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Quale chiave espressiva adotta Martone per un allestimento così complesso, corale, talvolta di grana grossa? Quella di un’epica stracciona, mista di sangue, sudore e macchine di morte, alleviati da blande crapule fra postribolo e mal venereo. Prassi scenica che potrà anche infastidire per certi suoi passaggi kolossal o di compiaciute contaminazioni dialettal-iconografiche (così simili ai bassi di Napoli). Ma che resta vigorosa, impetuosa, collettiva, anche nel suo sbozzare antifrasi ed epifenomeni di “marmaglie di complemento”.

Quasi un miracolo di “distillati  attorali” e  “tonali consonanze”   nel comizio di incitamento alla presa della Bastiglia che completa il primo atto (con Robespierre e Sain Joust ad arringhiare con cinismo la plebe informe).

Restando Danton (Giuseppe Battiston,  umana valanga di impeto e dubbio ragionevoli, epicurei)  l’uomo in rivolta, solitario e solidale,  perplesso di se stesso, che insegue l’stante,  incerto al mattino se arriverà la sera, per lui e non solo   E Robespierre (il più sottile, esaltato, dialetticamente ferrato Paolo Pierobon)  incarnazione ossuta, mingherlina, indomita di un “mito di Sisifo” che dall’intelletto proto borghese si scaraventa sulla massa:  mucillagine cieca, impellente, assassina di un popolo plagiato, piegato e tumefatto dalla voragine del Termidoro, ‘nutrita’ di  fame e parole d’ordine (narcosi dell’indigenza più infima: quella del libero arbitrio espiantato dalla miseria).

Buchner? Il  meno romantico di epoca romantica,  il testimone più disilluso, concreto, depurato di titanismo subliminale- osservatore della “dinamica delle cose..irrazionale..sempre più simile a quella dell’homo sapiens”. Non esplicabile, men che mai incatenabile.

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Una produione Teatro Stabile di Torino
“La morte di Danton”
di Georg Büchner
traduzione Anita Raja
regia e scene Mario Martone

con (in ordine alfabetico) Giuseppe Battiston, Fausto Cabra, Giovanni Calcagno, Michelangelo Dalisi, Roberto De Francesco, Francesco Di Leva, Pietro Faiella, Gianluigi Fogacci, Iaia Forte, Paolo Graziosi, Ernesto Mahieux, Paolo Mazzarelli, Lino Musella, Totò Onnis, Carmine Paternoster, Irene Petris, Paolo Pierobon, Mario Pirrello, Maria Roveran, Luciana Zazzera, Roberto Zibetti

e con Matteo Baiardi, Vittorio Camarota, Christian Di Filippo, Claudia Gambino, Giusy Emanuela Iannone, Camilla Nigro, Gloria Restuccia, Marcello Spinetta

costumi Ursula Patzak
luci Pasquale Mari
suono Hubert Westkemper
registi collaboratori Alfonso Santagata e Paola Rota
scenografo collaboratore Gianni Murru
si ringrazia per la collaborazione Bruno De Franceschi


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