Una marcia per l’amnistia, il diritto, la giustizia

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Forse è don Luigi Ciotti, l’infaticabile animatore del Gruppo Abele, che ha saputo cogliere con maggiore intensità e “semplicità” il senso della Quinta Marcia per l’Amnistia, la Giustizia, il Diritto, indetta dal Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito e da “Nessuno tocchi Caino”. Una Marcia che ancora una volta parte da uno dei luoghi simbolo della sofferenza umana, il carcere romano di Regina Coeli, per poi “sfociare” e confondersi tra quanti il giorno di Pasqua, vanno ad ascoltare la parola di papa Francesco. Una “resurrezione” laica che si mescola con quella dei “credenti”, come è già accaduto altre volte: che per tutti, vale il Discorso del Nazareno sulla Montagna, e quel “Non fare ad altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, che riassume tutti i codici, canonici o laici che siano.  

Don Ciotti, si diceva: “ Cari amici”, scrive agli organizzatori della Marcia, “è  importante tenere alta l’attenzione – e in questo voi siete da sempre un punto di riferimento – su problemi come quelli del carcere e più in generale della giustizia. Problemi che, se trascurati o strumentalizzati, possono distruggere la base stessa di una convivenza basata sui diritti e sulla dignità, nella quale ci riconosciamo diversi come persone e uguali come cittadini. Come è importante farlo con il metodo e lo ” Stile” che vi contraddistinguono: partendo dalla vita e dalla storia delle persone, dai loro bisogni e dalle loro speranze, in quella relazione stretta che è premessa di una giustizia più giusta e di una democrazia più vera. Grazie ancora il vostro impegno, continuiamo a camminare insieme”.

Si diceva dei “luoghi”: Regina Coeli, carcere per eccellenza di Roma: luogo di sofferenza per tanti che sofferenze hanno procurato, e di troppo poco recupero: uno dei tanti penitenziari italiani dove non ha alcun senso l’articolo 27 della Costituzione, che giova recuperare alla nostra memoria: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”.

Si concluderà, la marcia, a piazza San Pietro: luogo simbolo del cattolicesimo, ma anche “luogo” di quella “spes contra spem” che vuole essere speranza e non si limita ad attenderla. E’ quel papa mezzo francescano mezzo gesuita, venuto da “quasi la fine del mondo” che sono arrivati gesti concreti da cui ancora la classe politica italiana non sa (e soprattutto  non vuole) recepire, pur proclamandosi a ogni pié sospinto credente e “obbediente” al magistero che viene dal Vaticano. I primi provvedimenti adottati da papa Francesco sono stati introdurre nella legislazione del Vaticano il reato di tortura; abolire la pena di morte e l’ergastolo. I nostri politici, e i parlamentari in particolare, anche quelli più pii e devoti, da questo orecchio non ci sentono: da decenni si attende una legge che punisca la tortura; quanto all’ergastolo e alle altre battaglie di civiltà giuridica, lo spettacolo offerto è sotto gli occhi di tutti.

I promotori della Marcia si ritrovano pienamente nelle parole di Francesco quando definisce l’ergastolo “una pena di morte nascosta”, o quando si esprime contro l’abuso della carcerazione preventiva o dell’isolamento praticato nelle carceri di massima sicurezza (è accaduto il 23 ottobre 2014, alla sala dei Papi, durante un incontro con una delegazione di giuristi cattolici). Con la Marcia si chiede che le massime istituzioni della Repubblica facciano sentire la loro voce, che il Governo e il Parlamento affrontino finalmente in modo organico le questioni del carcere e quelle, più generali, della giustizia.

A questo punto, una doverosa notazione: non è finora mai capitato di poter ascoltare i promotori dell’iniziativa, di vederli ospitati in un qualche programma di approfondimento politico, di poter giudicare e valutare le loro ragioni. Eppure probabilmente sarebbe più interessante poter ascoltare, una volta, don Ciotti o Rita Bernardini, Ascanio Celestini o Irene Testa, in luogo della solita compagnia di giro che affolla i talk show e i cosiddetti programmi di approfondimento politico.

“E’ una nuova straordinaria mobilitazione”, dicono Rita Bernardini e Irene Testa, le principali animatrici dell’iniziativa, “per ribadire la necessità di un’amnistia perché le nostre istituzioni fuoriescano dalla condizione criminale in cui si trovano rispetto alla nostra Costituzione, alla giurisdizione europea, ai diritti umani universalmente  riconosciuti e alla coscienza civile del Paese”.

Perché in Vaticano? “Perché da papa Francesco ci attendiamo, come in passato, un segnale di sollecitazione rivolto alla classe politica italiana, che tanto dice, poco fa”.

Con la Marcia si vuole anche “ricordare che al 30 giugno del 2016 i processi pendenti erano 3.800.000 nella giustizia civile e 3.230.000 in quella penale, per un totale di 7.030.000 processi che affollano le scrivanie dei magistrati, ai quali vanno aggiunti circa un milione di procedimenti nei confronti di ignoti”. Inoltre, sono circa 20.000 i detenuti che devono scontare in carcere meno di tre anni. Bernardini ricorda poi le parole di Marco Pannella: “La nostra richiesta di amnistia non è quel ‘gesto di clemenza’ che chiede il Papa. Noi vogliamo un’amnistia ‘legalitaria’, che ripristini le condizioni di legalità costituzionale nei tribunali e nelle carceri, contrapposta a un’altra amnistia: quella strisciante, clandestina, di massa e di classe che si chiama ‘prescrizione’”.

In concreto? “Vogliamo un’amnistia”, spiega Testa, “che sia propedeutica a una grande riforma della giustizia penale. Quello che si chiede è una riforma della giustizia civile, la cui paralisi penalizza i privati e le imprese, scoraggia gli investimenti esteri e comporta costi enormi per l’economia nazionale. Chiediamo una Grande Amnistia per la Giustizia, per la Costituzione, per la Repubblica. L’amnistia di classe, arbitrio nelle mani della magistratura, anche nell’anno 2016 ha cancellato 132 mila processi”.

Accade infatti che ogni giorno con la prescrizione si consuma una vera amnistia “sommersa”, indiscriminata, che negli ultimi dieci anni,  ha mandato al macero oltre 1,5 milioni di processi. E’ l’amnistia dei potenti, di chi si può permettere la migliore difesa; quell’amnistia di cui non possono “beneficiare” i più poveri e indifesi, che non per caso riempiono le celle delle nostre carceri per scontare pene relative a reati bagatellari, che in altro modo, per loro e per noi potrebbero essere scontate.

Non solo. Sono circa mille ogni anno i casi di ingiusta detenzione ed errori giudiziari riconosciuti in seguito a sentenza di revisione. Nel solo 2016 la cifra spesa dallo Stato per risarcimento delle ingiuste detenzioni ammonta a 42 milioni di euro.

Per quanto riguarda le carceri le cose non vanno meglio: al 31 gennaio 2017, dai dati forniti dal Ministero della giustizia, nei 191 istituti di pena della Penisola risultavano presenti oltre 55.381 detenuti, rispetto a una capienza ottimale di 50.174. Sono numeri che testimoniano il perdurare di uno stato di sovraffollamento delle strutture che noi riteniamo essere persino più grave, poiché i dati delle “capienze regolamentari” non tengono conto delle numerose celle chiuse, inagibili o in fase di ristrutturazione che si trovano pressoché in ogni struttura.

A tutto questo vanno aggiunti gli annosi problemi che affliggono la maggior parte della popolazione detenuta: celle fatiscenti e insalubrità delle strutture, malfunzionamento dell’assistenza sanitaria, carenza cronica di attività trattamentali (lavoro, studio, sport), difficoltà per i detenuti fino all’impossibilità di mantenere rapporti affettivi con i propri familiari, mancate risposte alle istanze presentate ai magistrati di sorveglianza i quali risultano pochi in pianta organica rispetto ai compiti che ogni singolo magistrato deve svolgere (solo 204 in tutta Italia e ne mancano 14), inoltre risultano essere mal distribuiti, difficile accesso alle pene alternative, mentre per i detenuti stranieri continua a rimanere un miraggio poter incontrare e ricevere l’assistenza di un mediatore culturale. Il 78 per cento dei ristretti è affetto almeno da una condizione patologica, di cui almeno per il 40 per cento da una patologia psichiatrica.

Resta alta la percentuale dei detenuti in attesa di giudizio (35 per cento), e assieme a questo dato si registra anche la promiscuità tra detenuti in attesa di giudizio e condannati definitivi. Sono circa 20.000 i detenuti che devono scontare meno di tre anni.

Ecco, queste sono le ragioni alla base della Marcia radicale per l’amnistia. Le si condivano o meno, non avrebbero diritto di essere conosciute, dibattute, confrontate con le ragioni di chi all’amnistia è contrario?


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