Quella Sicilia che non ha mai smesso di lottare

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Esiste, da sempre, e ovviamente per fortuna, una Sicilia libera e onesta che non si arrende alla violenza e alla criminalità. Esiste una Sicilia indomita che si batte, da sempre, per i propri diritti e per emanciparsi dalla crudeltà di quanti l’hanno letteralmente depredata. Esiste una Sicilia che non si ferma davanti a nessuna barbarie, che si rialza e reagisce, che studia e che ci crede, ancora, nonostante tutto, con straordinaria passione e umanità.
È la Sicilia di Pio La Torre e Rosario Di Salvo, assassinati il 30 aprile 1982 per la loro battaglia indomita contro la mafia e i suoi soprusi, ed è la Sicilia dei contadini e dei lavoratori di Portella della Ginestra, massacrati il 1° maggio del ’47 da quel latifondismo fascista e criminale che per vent’anni aveva spadroneggiato a spese della povera gente e che, nell’immediato dopoguerra, non aveva alcuna intenzione di venire incontro alle richieste di migliori condizioni di vita e di lavoro che provenivano dalle masse sfruttate ed umiliate.
Una mattanza che aveva anche evidenti finalità politiche, in una stagione nella quale, specie in Sicilia, l’anticomunismo era feroce e si avvaleva di tutti i mezzi possibili e immaginabili per evitarne l’avanzata, irridendo le richieste di giustizia sociale, uguaglianza e diritti che sempre più forti si levavano da parte della popolazione.
Due storie siciliane, dunque, ma al tempo stesso due storie che riguardano tutti noi e che dicono molto su questi settant’anni di vita repubblicana, fra zone grigie e mafiosità diffuse, vergogne taciute, segreti occultati, appalti assegnati agli amici degli amici, missili dislocati dove faceva comodo ai padroni del mondo e indicibili accordi per tutelare lo status quo ed impedire l’affermazione di una forza politica onesta ma scomoda per gli equilibri stabiliti a Yalta.
Trentacinque anni fra Portella della Ginestra e l’omicidio di quel segretario regionale del PCI, nato povero e giunto in Parlamento; trentacinque anni dalla morte di Pio La Torre ad oggi; settant’anni di misteri mai svelati e di scempi perpetrati, invece, con grande protervia, ben coscienti delle complicità dall’alto e delle mani sporche di sangue che sarebbero intervenute per colpire chi si fosse eventualmente azzardato a provare a far luce su una simile vergogna.
Settant’anni in cui, nell’inferno di una regione devastata e amministrata quasi sempre malissimo, abbiamo avuto alcuni splendidi esempi di resistenza anche nelle file della Democrazia Cristiana, primo fra tutti quel Piersanti Mattarella che pagò con la vita il prezzo del suo coraggio nel provare a modificare il corso della storia, non solo politica, della sua isola e del Paese.

Da Portella della Ginestra, prima strage dell’Italia repubblicana, alle grandi stragi e ai delitti di mafia che insanguinarono la stagione della Trattativa, preceduti dall’orrore dei due decenni in cui i Corleonesi provarono, e diciamo pure riuscirono, a impadronirsi di tutti i gangli vitali di una terra bella e maledetta: questa è la storia occulta del nostro Paese.
E il generale Dalla Chiesa, che tutto era fuorché comunista, quando gli venne chiesto di commentare i motivi per cui era stato assassinato Pio La Torre, insieme all’autista, rispose in maniera semplice e disarmante: “Per tutta una vita”.
Una vita conclusasi nel sangue a soli cinquantaquattro anni, una vita intensa, ricca di passioni e di entusiasmo, una vita grazie alla quale la parola “mafia” entrò nell’immaginario collettivo e nessuno poté più tacere di fronte a questa piovra malvagia che continua tuttora ad avvelenare la nostra società.
Una vita, quella di Pio La Torre, che è considerata, a ragione, un simbolo di dedizione pressoché totale alla politica e al bene comune, eroica nella sua tragicità, disperata nelle sue denunce, solitaria e sconfitta dal silenzio complice dei troppi che non vollero vedere e dai molti che, pur vedendo, non vollero credergli.
Settant’anni per dire basta, per ricordare e per sforzarsi di costruire una società e un futuro migliori.
Dedichiamo a loro questo primo maggio che, da qualche anno, più che la festa del lavoro e dei lavoratori, è diventata la festa della disoccupazione, del precariato e della rabbia di chi vede davanti a sé unicamente il buio.
Dedichiamo loro un pensiero, un ricordo, un fiore e una riflessione ma, soprattutto, il nostro coraggio e il nostro desiderio di far sì che le battaglie per cui quei braccianti e quel coraggioso esponente politico caddero per mano mafiosa proseguano e vengano, finalmente, portate a compimento.


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