Può Juncker arrestare la disgregazione dell’UE, dopo la Brexit e il successo di Alternativa per la Germania?

0 0

Gli strati sociali più giovanili e acculturati dell’Unione Europea, la “generazione Erasmus”, i professionisti, la media borghesia operosa e imprenditoriale, tutti quelli che pagano le tasse, si sentono non rappresentati dai loro governi, per lo più conservatori o espressione di “grosse koalition”. Ne discutono magari sarcasticamente sui social network, ne fanno oggetto di critiche ai bar, nei pub, nelle piazze dove manifestano coloratamente. Ma al momento decisivo della conta dei voti, al rituale democratico delle elezioni, questi strati sociali non sanno per chi votare, si chiudono nella sfiducia generalizzata, “fanno le pulci” a qualsiasi realtà nuova che si presenti: alla fine o non votano (tanto si sono espressi sui social network!) o disperdono le loro preferenze.

Dall’altra parte della barricata, però, “gli altri” (i più anziani, i pensionati, i disoccupati scarsamente alfabetizzati, il massiccio popolo di evasori ed elusori fiscali, la ricca borghesia dedita alla finanza) si compattano, votano per i nuovi “campioni” della xenofobia, dell’euroscetticismo, della “legge e ordine”, del revanscismo nazionalista, isolazionista e oscurantista. Nell’astensionismo crescente, vincono loro, nostalgici di una “grandeur” ormai superata dal tempo e dalla tecnologia globalizzante. In più si va affermando un giornalismo partigiano, politicizzato fin nelle viscere, lontano dalla tradizione anglosassone dei “fatti separati dalle opinioni”.

Quel tipo di giornalismo indipendente, “cane da guardia del potere”, anche a causa dell’uso massiccio dei social network (Facebook, siti, blog ed altre application), non esiste più! Ma i grandi gruppi editoriali sono sempre più forti ed invasivi. Nessuno stato, nessun governo, nessuna legislazione internazionale ne limita l’intrusione e la devastante opera di persuasione occulta sulle opinioni pubbliche, orientandone scelte, umori, consensi, consumi, tendenze culturali e di costume.

Se la sinistra, italiana e continentale, è ormai preda di un moto centrifugo e dispersivo, e la destra ha scelto il rifiuto del modello liberale a favore dell’iperliberismo, i media tendono sempre più a concentrarsi, a superare anche il confine tra le diverse “piattaforme” (carta stampata, radio e TV, web, satellite, smartphone), omologando la comunicazione a livello planetario (“quello che vale a New York, vale anche a Parigi, Mosca, Città del Capo, Rio de Janeiro, New Delhi e Pechino”), aggirando spesso i limiti antitrust di fusione tra Media company, TLC, industria dei computer, organizzazioni di grandi eventi, specie quelli sportivi ad alta redditività (Formula 1, Olimpiadi, Mondiali, calcio, moto, ciclismo). Insomma, se il neo-capitalismo agguerrito e sempre più legato alla finanza abbraccia l’iperliberismo, travalica i poteri dei singoli stati, imponendo loro regimi fiscali di vantaggio (i casi di Irlanda, Olanda, Gran Bretagna, Lussemburgo, Belgio per le OTT, cioè le multinazionali del WEB), la politica tradizionale annaspa, si fa docile strumento di questi nuovi “poteri forti”; mentre la protesta per le diseguaglianze sempre più crescenti si disperde in mille rivoli, senza organizzazioni, senza strumenti efficaci di comunicazione (salvo i social network), senza coordinamenti e, soprattutto, senza leader all’altezza delle sfide, capaci di gestire anche la fase della costruzione del “dopo” la rivolta.

Podemos, Syriza, La nuit debout, Cinque Stelle, solo per fare qualche esempio, ma anche i movimenti generatori degli “Indignati” e degli “Occupy Wall Street”, stanno mostrando tutta la loro impreparazione nella “gestione ordinaria” del potere di rappresentanza, una volta ottenuti dei successi elettorali. Manca una classe dirigente, ma soprattutto manca un collante ideale, strategico e globalizzante. I tempi e i luoghi della politica si dovrebbero connettere come si interconnettono gli operatori finanziari attraverso le H-FT, le High-frequency trading, creando in pochi nano secondi sconvolgimenti sui mercati. E’ arrivata l’ora di creare un “Algoritmo politico”, oltre che leader all’altezza delle sfide. Altrimenti, assisteremo come primo effetto della lunga e drammatica crisi economica e sociale post-2008 alla disgregazione dell’UE, passando prima per la creazione di una Zona Euro a due fasce: da una parte i “ricchi” paesi del Nord e dall’altra quelli “spendaccioni” del Mediterraneo. E poi con l’incapacità di gestire due emergenze apparentemente diverse tra loro: l’afflusso di milioni di immigrati, eterodiretto e gestito da mafie ben radicate in alcuni paesi mediorientali ed africani; la disarmonia fiscale tra vari stati europei.

Queste “emergenze” acuiscono il malessere di vasti strati popolari, un tempo anche bacino elettorale della sinistra. Ecco, allora, che si insinuano nella pubblica opinione i richiami “alla pancia” da parte di movimenti, neo-partiti e leader senza scrupoli, xenofobi, euroscettici, “anti-sistema”, contro i “poteri forti” della finanza e delle corporation. L’Europa con i suoi apparati tecnocratici e burocratici diviene un facile obiettivo per destra e sinistra. Disgregare l’Unione “arcigna matrigna” e ritornare alle monete nazionali, chiudendo dopo 14 anni la circolazione Euro, procacciatore di chissà quante disgrazie e “responsabile primo” delle crisi economiche, dei debiti statali, delle tassazioni elevate: questi gli obiettivi unificanti dei partiti euro-centrifughi. Una deriva che porta alla costruzione di cortine spinate e muri non solo per “arginare l’esodo dei migranti”, ma anche per erigere frontiere protezionistiche, ritornare all’epoca delle svalutazioni competitive.

In attesa dell’Algoritmo politico di collegamento tra i movimenti progressisti, assistiamo purtroppo all’estendersi dei consensi verso quei neopartiti, xenofobi, euro-distruttori, populisti: l’AfD tedesca, l’UKIP inglese, il FN della Le Pen in Francia, i nazionalisti danesi, quelli ungheresi e polacchi, i 5Stelle italiani (seppure più trasversali degli altri).

I casi politici più paradigmatici sono quelli di Spagna, Gran Bretagna e Germania. E parlano della disgregazione prossima ventura dell’Europa.

La Spagna corre all’impazzata come nella corrida per le strade di Pamplona verso le terze elezioni generali in un anno, nell’indeterminatezza più assurda. Il fenomeno innovativo di Podemos non ha sfondato come prevedevano gli osservatori, anche se il partito di Iglesias ha ottenuto un buon risultato, diventando il terzo dopo i democristiani dei Popolari di Rajoy (ancora premier) e i socialisti di Sanchez, ormai nella spirale della decadenza. L’economia in salsa tedesca, spinta dalle scelte neo-liberiste, mostra alcuni segni di ripresa, ma si accentuano le diseguaglianze, aumentano i poveri e i disoccupati (il tasso è il doppio dell’UE e tra i giovani supera il 50%!).

A sinistra, la concorrenzialità leaderistica e la discordanza dei programmi ha frenato qualsiasi possibilità di formare una maggioranza alternativa al centrodestra. Ad ogni nuova elezione, così, il conservatore Rajoy rosicchia qualche percentuale e seggio in più, mentre i socialisti si assottigliano e gli Indignados di Iglesias agiscono come “l’asino di Buridano”, non sapendo scegliere quale strada percorrere per governare con i socialisti e gli indipendentisti della Catalogna, sempre più determinati a separarsi da Madrid.

Sulla Brexit i media, dopo aver soffiato sul fuoco (quelli britannici, capitanati dalla scuderia dello “squalo” Murdoch), si sono addormentati sulla riva della Manica, attendendo che passi la tormenta e che il nuovo Triumvirato (Merkel, Hollande, Renzi) tiri fuori dal cilindro un coniglio che sappia ruggire, anziché tentennare. Magari delegando la superburocrazia di Bruxelles, guidata dal funambolesco Juncker, affinché se la sbrighi senza troppa severità e prendendosi tempo, molto tempo, al ritmo di “Adelante, Pedro, con juicio”.

A Londra va in scena lo psicodramma politico tra i laburisti che vorrebbero sbarazzarsi dell’ondivago leader Corbyn (moderatamente anti-Brexit e apertamente euro-critico), i conservatori che precipitano al “regicidio” dell’anti-Brexit Cameron (costretto a dimettersi dal parlamento per non creare una fronda contro l’euroscettica May), e l’eroe indiscusso della Brexit, quel Nigel Farage, inventore dell’UKIP, che ha preso commiato dalla scena mediatica (ma tenendosi stretto il ben remunerato seggio a Bruxelles), dopo aver eseguito il killeraggio politico dell’UE e, probabilmente dello stesso United Kingdom. I fieri, baldanzosi e straricchi scozzesi sono sul piede di guerra, indomiti con le loro cornamuse, sprezzanti del vento gelido polare, carichi some sono di royalties petrolifere, pronti a separarsi da Londra e aderire di corsa all’Unione Europea.

Ma preoccupante ancor di più è la crescita del movimento tedesco euro-centrifugo, xenofobo e demagogico AfD della giovane leader Frauke Petry. Fra pochi giorni si voterà per il lander di Berlino, altro test elettorale sulla tenuta della Grosse Koalition della Merkel con i socialdemocratici, previsti in forte calo, come la CDU. Il campanello d’allarme si è avuto alle elezioni nel piccolo lander del Meklembourg-Pomeranie-Occidentale, quello della cancelliera: CDU terzo partito col 19%, AfD al 20,8%, Spd al 30,6%. Crollo della Die Linke, alleata della Spd e dei Verdi spariti dal parlamentino.

AfD è presente in 10 dei 16 Parlamenti regionali e secondo un sondaggio dell’istituto Emnid è accreditata del 12% di intenzioni di voto alle legislative del prossimo anno, diventando la terza forza, dietro alla CDU/CSU, al 34%, e alla SPD, al 23%, ma avanti ai Verdi, all11% e alla sinistra della Die Linke, al 9%. In tre anni è diventata una realtà, assorbendo anche i consensi dei neo-nazisti del PND e degli islamofobi di Pegida.

L’Istituto tedesco per la ricerca economica, DIW, il 24 agosto ha pubblicato un’interessante analisi condotta su 12.000 ambienti abitativi e lavorativi per identificare le categorie degli elettori dell’AfD nel 2016: 15% di disoccupati; 11% operai; tra coloro che hanno meno di 30 anni sono il 10%; abitanti nella Germania dell’Est l’11%, mentre all’Ovest sono solo il 3%. Sostenitori anche tra gli astensionisti, che nel 2015 si sentivano rappresentati da questo partito al 3%, mentre ora sono saliti al 20%. Più giovani e meno borghesi sono i simpatizzanti, attratti da una linea politica basata essenzialmente su argomenti identitari e di sicurezza, e del ritorno al Marco. Con la sua politica “antipartiti” e contro gli immigranti ha calamitato anche gli elettori dei “vecchi partiti”: un 2% da SPD, CDU e Verdi, il 6% dai liberali del FDP, 9% dalla Die Linke.

A primavera e a settembre dell’anno prossimo ci saranno due elezioni fondamentali per la tenuta di questa Unione ormai piena di “toppe”: le presidenziali francesi, con i conservatori Sarkozy o Juppé, tra i più accreditati a vincere nel secondo turno contro la probabile sfidante Marine Le Pen, leader dell’euroscettico FN. Con l’attuale presidente Hollande escluso dal ballottaggio. In Germania potrebbe tramontare la stella europeista della Merkel, ma anche segnare il declino inarrestabile del SPD di Sigmar Gabriel. A Berlino allora regnerà il caos, mentre la destra riuscirà a influenzare anche le scelte dell’UE.

E a quel punto chi difenderà più l’idea dell’Unione e dell’Euro? Le nostre sorti sono così riposte nel lussemburghese Juncker, già capo del governo del Principato per quasi 20 anni e principale accusato dall’inchiesta del Consorzio Internazionale dei Giornalisti investigativi, “LuxLeaks” (oltre 300 aziende multinazionali favorite da sconti fiscali ed elusioni)?

Come in una “danza macabra” l’Unione verrà sballottata, sulla scia della musica scordata sempre più intensa, come le note di Saint-Saens. Ma forse nessuno sentirà il canto del gallo che si affievolisce, mentre sfuma l’alba dell’uscita dall’incubo della disgregazione.

 


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21