Come la letteratura diventa politica. L’esperienza italo-cipriota di “Pane e Poesia”

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Un’antologia di scrittrici di due terre diverse, curata e assemblata nel nome del Pane e della Poesia da un’associazione che tesse il filo tra i suoi affiliati e la cultura non originaria in cui si trovano a vivere: e può succedere che, improvvisamente e inopinatamente, terre e culture dimenticate o poco frequentate irrompano nelle nostre vite e nella nostre menti, che nuove relazioni e nuove esperienze  le amplino e le ossigenino, che nuovi orizzonti ci rammentino la relatività e la limitatezza dei nostri confini spaziali, sociali, culturali. È accaduto con l’antologia poetica bilingue “Pane e Poesia” – “Ψωμι και ποιηση” in lingua greca – che a cura dell’Associazione dei Ciprioti in Italia “Nima” (Nima vuol dire Filo) ha raccolto, in un volume edito da La Vita Felice (Milano 2015), alcuni testi di poete cipriote e poete italiane, non limitando l’incontro ai segni intrecciati della carta stampata, ma allargandolo alla frequentazione reale tra le autrici.
A profondere saperi e energie per questo progetto, che ha già gettato molti semi e che continuerà a produrre frutti, è stata soprattutto la presidente dell’Associazione “Nima”, Alexandra Zambà, tra i suoi molti ruoli e mestieri anche poeta e traduttrice. È lei che, coadiuvata da Diana Battaggia, direttrice editoriale de La Vita Felice, e da altre traduttrici e traduttori (Angeliki Blana, Vincenzo Rotolo, Evangelia Skoufari, Evangelia Polymou), ha messo insieme i testi di Alexandra Galanou, Angela Kaimaklioti, Frosoula Kolosiatou, Eufrosini Manta-Lazarou, Lily Michaelides, Elena Toumazi Rempelina, Alexandra Zambà, Annamaria Ferramosca, Cinzia Marulli, Rita Pacilio, Helene Paraskeva, Laura Ricci, Anna Toscano e il Centro Diurno Boemondo della Asl 2 di Roma, dove la responsabile, Cinzia La Marra, si avvale del potere terapeutico della poesia. E è ancora lei che ha organizzato l’incontro reale e il confronto tra le autrici: prima a Milano, per le “Giornate cipriote in Italia” dell’ottobre 2015; e pochi giorni fa, in questo aprile 2016, a Cipro, con un vero e proprio tour culturale che ha toccato le città di Nicosia, Larnaca e Limassol. Le autrici non si sono incontrate solo tra loro e con le rappresentanze diplomatiche e istituzionali di rito ma, specialmente a Cipro, anche con altre scrittrici, scrittori, artisti e realtà socio-culturali, come ad esempio l’Unione degli scrittori di Cipro, la Fondazione Phivou Stavridi e l’Associazione culturale Artion di Larnaca, il Centro diurno dei Servizi d’Igiene Mentale di Nicosia.

Scrivo dal punto di vista di una delle autrici scelte per questa inattesa avventura culturale, a cavallo tra sensazioni da scrittrice e curiosità e osservazioni da giornalista, ben consapevole della parzialità del mio sguardo, ma anche del valore, sia pure relativo, che può avere una testimonianza diretta su questa esperienza. Di certo marginale – la poesia, Cipro, la questione cipriota a lungo dimenticata – se la rapportiamo a ciò di cui l’informazione e la cultura di massa sembrano nutrire le menti più conformi e distratte, ma spesso è proprio dai margini, dalle realtà multiculturali di frontiera, che possono venire suggestioni e spiragli preziosi. Per affrontare problemi o, quanto meno, per moderare presunzioni di verità, centralità e onnipotenza.

Per cominciare dal cuore della Poesia, è evidente, come annota Maurizio De Rosa nell’introduzione all’antologia, che molte sono le consonanze di spirito e le vibrazioni che uniscono le poete italiane e quelle cipriote, riconducibili a echi di divinità e miti mediterranei condivisi, a un passato di storia e cultura classica comuni, a riflessi ancestrali che trascorrono da madre in figlia, da corpo a corpo, “da fibre consapevoli della vita e della morte, che forgiano sensibilità e plasmano visioni del mondo”.  Ma si nota indubbiamente, nelle cipriote, una maggiore drammaticità, un vulnus, una ferita collettiva che affonda nell’occupazione turca del 1974 e nella divisione dell’isola, nell’esodo coatto che la popolazione greco-cipriota del Nord ha dovuto subire. Così, se per le italiane l’appartenenza è declinata dalla parola terra o dal sentirsi parte di un comune cosmo o mare, per le cipriote risuona esplicitamente con la parola patria – patria perduta o patria violata – e, con immagini dirette o con metonimie e metafore, con la frequente allusione alla violenza dell’invasore.

La poesia è sempre politica, se non altro perché vuole assegnare un altro ordine e priorità diverse alla realtà, ma la politica, in questa poesia femminile cipriota, spira e entra da mille pertugi, anche nelle immagini e nelle risonanze più intime. E spira doppiamente: dall’assunzione di un atavico destino e di una precisa responsabilità femminile, e dalla consapevolezza dell’abitare un paese oltraggiato, diviso e a lungo dimenticato dalla politica internazionale. Perché, se non fosse sopravvenuto l’imponente esodo siriano verso l’Europa e quella che una parte del  mondo chiama “l’emergenza migranti”, se Turchia e Grecia non fossero divenuti paesi chiave per un’eventuale regolazione dei flussi, quanti oggi avrebbero ricordato che nel 1974, approfittando della crisi greca sotto il regime dei colonnelli,  la Turchia fu responsabile dell’invasione di Cipro, e che quella repubblica di Cipro del Nord, fondata nel 1983 è, di fatto, solo la Turchia e nessun altro stato dell’Europa a riconoscerla? E quanti che, incurante delle radici e di ogni sana mescolanza di culture e di popoli, l’esodo interno all’isola interessò sia i greco-ciprioti, costretti ad espatriare da nord a sud, sia i turco-ciprioti, obbligati a lasciare il sud per il nord. Nella regolazione del nuovo scacchiere dell’Europa e del ruolo chiave del Mediterraneo si è tornati a parlare, per forza di cose, anche di Cipro e dell’eventuale riunificazione dell’isola. Si spera che non si tratti solo di una partita tra poteri e potenti e che, soprattutto, la partita si giochi chiedendo alla Turchia garanzie democratiche che al momento sono lontane dal manifestarsi, e un allentamento della pressione sugli stati che influenza.

Se dal cuore della poesia ci si avvicina alla vita, per quel poco che ho potuto osservare, quanto questa divisione sia stata e continui a essere artificiale e pesante lo si tocca anche spazialmente. A Nicosia, città troncata dalla demarcazione della linea verde, i punti di controllo e le palizzate separano due spazi, due religioni, due lingue e due etnie un tempo abituate a mescolarsi e a convivere: dal lato greco-ortodosso le bandiere di Cipro e quelle della Grecia si alternano a sottolineare una decisa appartenenza politico-culturale, da quello islamico la svettante rivisitazione della bandiera turca con mezzaluna e stella ne enfatizza una diversa. Praticamente in pieno centro, nei pressi della linea verde segnata dal filo spinato e dai sacchetti in iuta dei chicchi di caffè, i greco-ciprioti (e i turisti) vanno a oziare, socializzare, deliziarsi di caffè greco e squisiti dolci tipici nel locale più vissuto e popolare della città. Mi piace questa gentile e silenziosa provocazione, che insiste con indomita pacatezza sulla volontà di presidio sociale e ricreativo di una frontiera subita e non richiesta che, dall’altra parte, si presenta invece vuota e abbandonata.

Tutti parlano, oltre al greco, l’inglese: lo studiano da sempre a scuola e lo usano costantemente nella quotidianità accanto alla lingua madre ufficiale (la lingua greca), come accade in molti paesi che sanno di possedere lingue minoritarie. Realizzo che anche l’italiano, in fondo, è una lingua minoritaria, ma che non c’è ancora, rispetto a questo, una nostra adeguata consapevolezza. Uno dei nuovi amici ciprioti, un letterato, mi fa notare che la divisione politica ha rinforzato, a Cipro sud, l’appartenenza culturale alla madre Grecia e che questo ha probabilmente contribuito alla perdita progressiva di una lingua cipriota autoctona: un idioma che varrebbe la pena non dimenticare e recuperare, molto più vicino all’italiano a causa dell’influsso linguistico dei Veneziani, che ressero Cipro fino all’invasione turca del 1570 e alla resa del 1571. Vecchie e nuove invasioni, strisce di fuoco e di sangue che segnano popoli e territori. Eppure Cipro, come altri tormentati avamposti di frontiera, è una terra ponte, una stupefacente contaminazione di mediterraneo occidentale e di oriente, che si rinviene nei paesaggi, nelle rovine, nella vegetazione, nelle architetture, negli odori, nei sapori, nei ritmi di vita e nelle abitudini delle persone. Una terra che poteva e doveva servire a unire, piuttosto che a dividere.

Non si pensi, tuttavia, che la difficile situazione politica, la ferita ancora aperta e irrisolta dell’invasione, abbia inasprito o incupito questo popolo mediterraneo: i ciprioti sono aperti, curiosi e ospitali; non risparmiano opinioni, gentilezza e sorrisi; sono inclini al viaggio, al confronto e all’entusiasmo; non disdegnano i piaceri caldi, semplici e lenti della vita. Così, una poeta come Angela Kaimaklioti, se in Cercasi Patria si pone tra i “passeri remissivi” che ritrasmettono “chiacchiere di rondini/ e di altri migratori /sul presunto arrivo/ della primavera”, in Ottimismo rifiuta “poesie in bianco e nero/ di scrivere” e invoca piuttosto “parole nude /che nuotino al sole/ e come gabbiano la mia matita/ che trascini al largo/ l’alfabeto”. Così Frosoula Kolosiatou, se da un lato declina “lacrime che nella pioggia non si vedono”, dall’altro può affermare di tenere dentro di sé, come “destino e disfida”, tutto “quello che non è stato perso”. E ancora Eufrosyni Manta-Lazarou, da vera “collezionista di mine” – questo il titolo di una sua raccolta – pur nell’esplosione di una realtà di lutti, paure e insensatezze, non esita a consegnarsi “in un continente sparso di mine/ per tre metri di disarmata felicità”. E Elena Toumazi Rempelina, autrice di splendide angosciose visioni di angeli dagli “occhi belli” ma dal “corpo pesante come il ferro”, di persone che chiudono la strada con “l’immagine del paradiso/ disegnata sulle palpebre”, di un qualche demone che “con fragore ride” o mangia “capelli credendoli malva”, con puri accenti può tuttavia proclamare, come sua “unica patria”, la Bellezza: “Così come invisibile t’imbuchi/ e spericolata/ in uniforme da partigiano/ nella fessura schizoide del mondo.”

Senza più quella ferita diretta di invasione e divisione che le patrie, una volta ricomposte, medicano e cicatrizzano, anche le italiane si muovono tra splendore e orrore, tra stupore e dolore del mondo. Come Cinzia Marulli, che riflette metafisicamente su vuoto e assenza, sull’altra e sull’altrove che la morte del corpo può schiudere; o come Rita Pacilio, che nel “grido raggrumato” che dà titolo a una sua raccolta, rintraccia “l’arte di star muta”, di “guardare senza dire, senza lacrimare né ansimare” insegnata a una donna negra, o la “forza che risorge dalla morte” in ogni donna che voglia scuotere da sé, lei stessa carnefice del suo io profanato, la violenza subita.

Dall’una e dall’altra parte – in Galanou, Michaelides, Zambà, Ferramosca, Paraskeva, Ricci, Toscano, Centro Boemondo – risuonano il Mediterraneo e l’Egeo, l’amore e la pietas, la parola e il silenzio, Teseo e Arianna, Euridice e Orfeo, le trasformazioni e le perdite. Nel mondo che erige muri e divisioni, in comunanza poetica e amicale, sulla pagina come nella vita, questo incontro tra italiane e cipriote mi sembra ben suggellato da due immagini poetiche. Da un lato la Bellezza incontaminata e spericolata di Elena Toumazi Rempelina, quella che, come in un nuovo e diverso episodio biblico,  apre ai suoi piedi, nella “fessura schizoide del mondo”, il “candido mare aperto” non per respingere, ma per lasciar passare. Dall’altra il Mediterraneo tra diverse rive di Annamaria Ferramosca, che insieme a lei ci fa, tutte, proclamare:

“il mio sangue è incontro d’onde
paziente e antico
(continua a mescolare questo inascoltato mare)”.


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