Giornalismo sotto attacco in Italia

“Mi fa paura la paura che mi ha preso”

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Destinazione Vienna. L’ennesimo viaggio di lavoro che, da quando c’è Sara, mia figlia, non amo più fare. Un seminario di due giorni a cui ho deciso di partecipare soltanto per il secondo giorno. Ho lasciato il posto a una collega che teneva a partecipare più di me. O forse la decisione è stata dettata anche dalla pigrizia e dal crescente volere stare fuori casa il meno possibile. E quindi anziché partire ieri mattina da Zaventem, alla fine avevo prenotato il volo delle 15.50. La valigia è ancora lì, nell’ingresso. Alle 8,45 ero a casa, mettevo i panni in lavatrice, quando mi ha chiamato Valentina, una delle mie più care amiche, la mia famiglia qui. Si trovava a Gare du Midi, sul TGV per Parigi, altra riunione di lavoro anche lei, un’odissea rientrare a casa. Mi dice che c’era stato un attentato all’aeroporto e voleva controllare che io non fossi li.

Corro su ad aprire il PC e accendere la TV, e da lí non mi sono staccata per tutto il giorno. Dopo qualche minuto sono arrivate varie telefonate. Tanti amici e familiari. Al telefono Ingrid singhiozzava per l’angoscia perché l’avevano fatta evacuare dalla metro ad Arts Loi, la fermata prima di Maelbeek. La sfottiamo sempre perché non è mattiniera ed è sempre in ritardo. Meno male. Chiamo subito i miei a Palermo per dire che stavamo bene e posto sul profilo di facebook lo stesso messaggio. In pochi erano al corrente. All’inizio non si capiva l’entità dei danni, non c’erano molte immagini, si parlava solo delle bombe all’aeroporto. E poi a metà mattinata si sono viste le scene dell’interno della hall di Zaventem, adulti a terra, passeggini vuoti. E alla metropolitana gente sanguinante che veniva aiutata dai passanti o che aiutava i primi aiuti a medicare altri feriti. Poi i video dentro la metro con i pianti dei bambini. Dopo avere visto e sentito le stesse terribili scene cento volte, sono andata a fare una doccia per provare a far passare il senso di nausea e andare a prendere mia figlia a scuola. La rete mobile ha fatto presto a intasarsi. I cellulari non prendono più. Ma in pochi minuti – grazie WhatsApp! – abbiamo fatto il censimento di amici e colleghi. Tutti sani e salvi. Sotto shock, ma incolumi.
Ciascuno di noi avrebbe potuto essere in quei posti a quell’ora. E’ questo il pensiero che mi martella. L’abbiamo scampata. Ma gli altri, quelli che non sono stati fortunati come noi ? Le loro famiglie ? Perchè ? Ci eravamo quasi rilassati nelle ultime settimane. Dopo il lockdown che ci aveva forzato a casa per giorni avevamo evitato per qualche tempo i luoghi affollati dello shopping, i musei, il cinema, i mezzi pubblici. Ma poi ci si adatta – the show must go on- riprendi (quasi tutte) le tue abitudini e Salah diventa un fantasma. Ma abituarsi a una minaccia è già una rinuncia. Vivo in Belgio da 17 anni. E qui ho avuto tante opportunità, professionali e personali. Mi sono sempre lamentata del tempo uggioso e dell’inflessibilità dei belgi, ma mai avrei immaginato che questa città cosi multiculturale, tollerante, dove – nonostante la provenienza, la religione, quella della tua metà – sei sempre meno esotico di tanti altri, sia diventata la sede e la fonte di tanto terrore. Mi fa rabbia. E mi fa paura la paura che mi ha preso. La diffidenza, il pregiudizio che involontariamente mi portano a guardare storto e allontanarmi da chi mi sembra sospetto. E i sospetti hanno sempre le stesse sembianze. Ci vuole poco a generalizzare, lo fa la tua mente anche se cerchi razionalmente di opporti. E da qui all’odio il passo è corto.

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