Turchia, tra arresti e bavagli ai giornalisti. Diamo spazio ai colleghi silenziati

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E alla fine, anche L’Unione Europea – dopo gli Stati Uniti – condanna la Turchia per la continua violazione della libertà di espressione. Ha aspettato la fine delle elezioni per rilevare, nel suo report sull’allargamento,un “trend negativo” dell’andamento dei diritti fondamentali in Turchia, una realtà che ha messo in pericolo l’indipendenza della magistratura, la libertà di espressione, di riunione e di stampa. Insomma, Erdoğan ha oltrepassato le sue prerogative costituzionali, ma nel frattempo, con il voto del primo novembre, ha conquistato la maggioranza assoluta dei voti: il suo potere è enormemente accresciuto e la sua politica non è affatto cambiata: sono continuati gli arresti di giornalisti considerati a lui contrari e di oppositori del regime anche dopo la vittoria dell’Akp, il partito del presidente che governa da 13 anni. Nonostante questo, l’esecutivo Europeo apre all’ingresso della Turchia. La sua, più che una condanna, è un pungolo, una sollecitazione che punta a sorta di moral suasion.

Forse, oggi, di fronte al potere praticamente assoluto di Erdogan e del suo partito Akp, di fronte al bavaglio sistematico imposto alla stampa, è arrivato il momento per i media europei di dare più spazio a quei giornalisti la cui voce è silenziata nel proprio paese.

Il report della Commissione Europea parla anche di un “grave deterioramento della sicurezza” a causa della ripresa del conflitto con i curdi. Bisognerebbe raccontare e mostrare che cosa significa questo questo “grave deterioramento”. Dovrebbero farlo i giornalisti europei. Chi ha vissuto il Kurdistan turco in questi giorni ha visto quartieri militarizzati, morti tra i civili e una popolazione stremata: nel sud-est del paese si sta consumando una guerra civile nel silenzio generale. Imponendo il coprifuoco in molte città abitate dai curdi, le autorità turche dicono di voler fermare “i terroristi del Pkk”, ma colpiscono tragicamente anche gli abitanti. A Silvan – distretto di Diyarbakir, sul difficile confine tra Siria e Iraq, roccaforte dell’Hdp (partito filocurdo che nelle elezioni di giugno fece perdere la maggioranza assoluta a Erdogan) -oggi è l’ottavo giorno di coprifuoco. Vuol dire persone chiuse da più di una settimana dentro le proprie abitazioni, mentre fuori blindati e carriarmati sparano contro le loro case. Vuol dire mancanza di cibo, acqua ed elettricità. Bambini che non possono andare a scuola. Ospedali chiusi. Anche avere informazioni adeguate risulta impossibile perché le comunicazioni telefoniche sono interrotte e nemmeno il sindaco della città, Zuhla Tekiner (Hdp), ha avuto il permesso di entrare. Centinaia di civili stanno vivendo questa condizione nel silenzio generale. Il DPB (Partito democratico delle regioni) ha sollecitato il governo a cessare immediatamente il coprifuoco e, nel contempo, ha lanciato un grido di aiuto anche alle istituzioni fuori dal Paese: “Tutti dovrebbero intervenire per impedire un probabile massacro di massa, schierandosi contro la repressione”. Ha rivolto un appello anche alle Ong per fermare “le pratiche genocide dell’Akp e la violazione dei diritti umani contro la popolazione curda”.

In attesa dell’improbabile ipotesi che i governi europei assumano posizioni più coraggiose in difesa dei diritti umani, iniziamo noi giornalisti a dare voce e spazio ai colleghi silenziati in Turchia. Qualche anno fa la Federazione dei giornalisti europei lanciò una campagna per “adottare” i giornalisti turchi impossibilitati a esprimersi nel loro paese. Ora più che mai è necessario rilanciare quella campagna per dar voce sa chi è stato imbavagliato, censurato, incarcerato.


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