Dove andrà la politica italiana? Un modesto pronostico

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Settembre, andiamo: è tempo di ricominciare! Riparte l’attività parlamentare, sono in pieno svolgimento le feste dei vari partiti, movimenti, associazioni e anche di qualche quotidiano e il dibattito si è riaperto all’insegna dei temi con i quali ci eravamo lasciati prima della pausa estiva: la riforma del Senato, innanzitutto, ma poi anche le unioni civili e, come ogni anno, le grandi questioni economiche, legate all’imminente presentazione della nota di aggiornamento del DEF e della Legge di Stabilità.

Per tutti, ha parlato, come al solito, il Presidente del Consiglio, il quale, rilasciando un’ampia intervista ad Aldo Cazzullo, ha fatto sapere, tramite il “Corriere della Sera”, che non intende fermarsi né arretrare di un solo millimetro rispetto al programma delle riforme fissato.

Non è un caso, crediamo noi, che il Premier abbia scelto il quotidiano di Marchionne per far conoscere i propri intenti; come non è un caso che abbia scelto il meeting di Comunione e Liberazione a Rimini per far sapere a tutti quali saranno i suoi interlocutori privilegiati nei prossimi mesi; infine, non è un caso che oltre duecento pezzi grossi del mondo delle banche, dell’imprenditoria e della finanza abbiano acquistato una pagina, proprio sul “Corriere”, per far sapere che sosterranno Matteo Renzi senza se e senza ma, condividendo pienamente la strada intrapresa.

Cosa sta accadendo, dunque? Per quanto riguarda i cosiddetti “poteri forti”, è presto detto: siamo di fronte a una migrazione di blocchi di potere dall’universo che fu berlusconiano a quello renziano, con CL, Confindustria e il summenzionato settore bancario e finanziario a fare da apripista. Per quanto riguarda il mondo politico, siamo al cospetto della costruzione di una casa comune in grado di accogliere e far sentire a loro agio i nuovi arrivati, ossia all’atto costitutivo del Partito della Nazione. Proviamo pertanto, giocando anche un po’, a immaginare cosa accadrà nei prossimi mesi nell’universo politico italiano.

Il PD

Il PD, così come lo conosciamo, non esisterà più: nel momento in cui Renzi tirerà dritto, e lo farà, sulla riforma del Senato, imbarcando in blocco il gruppo di Verdini e quella parte di Forza Italia che rifiuta la deriva salviniana, è evidente che i dissidenti saranno messi definitivamente ai margini e, probabilmente, molti di loro se ne andranno. Ha cominciato Casson, forse tentato dall’idea di costruire un nuovo soggetto di sinistra insieme a Fassina, Civati e i superstiti vendoliani; potrebbero seguire a ruota Tocci, Mineo e altri, mentre qualcuno semplicemente voterà contro e prenderà in considerazione la strada del ritiro. Interessante, a tal proposito, sarà osservare cosa faranno i due senatori di stretta fede bersaniana Gotor e Fornaro, protagonisti nelle scorse settimane di polemiche durissime nei confronti del segretario-premier e artefici della provocatoria proposta di Ferruccio De Bortoli in Vigilanza RAI che ha impedito al PD di ottenere i quattro membri nel Cda per i quali pure avrebbe avuto, sulla carta, i numeri.

Assisteremo, dunque, a un terremoto ma di piccole dimensioni. Se Renzi infatti dice di avere i numeri, in parte bluffa ma in parte ha anche ragione, ben sapendo che alla fine i ventinove firmatari della proposta di modifica dell’articolo 2 della riforma, con il ritorno al Senato elettivo, si ridurranno a una ventina di irriducibili che potrebbero assottigliarsi ulteriormente se dovesse farsi largo la mediazione proposta dal ministro Martina (fondatore, insieme a Cesare Damiano, della corrente “Sinistra è cambiamento”) di un’elezione indiretta tramite la creazione di un listino ad hoc per la designazione dei senatori da affiancare alla lista dei candidati al consiglio regionale. Un mezzo pastrocchio, certo, ma d’altronde tutto l’assetto istituzionale ipotizzato da Renzi lo è, a cominciare dall’Italicum a forte rischio di incostituzionalità.

L’attenzione, pertanto, è bene concentrarla su un altro protagonista di cui sentiremo a lungo parlare nelle prossime settimane: il presidente del Senato, Pietro Grasso, i cui rapporti con Renzi pare siano sempre stati piuttosto freddi e il cui orientamento sembra essere quello di aprire a eventuali modifiche dell’articolo 2: un’ipotesi contro la quale i renziani fanno muro e si battono come un sol uomo, al grido: “Il cammino delle riforme non può fermarsi! Non possiamo ricominciare tutto daccapo!”. Infine il presidente Mattarella, che secondo alcuni osservatori, pur essendo la massima espressione della sobrietà, dunque quanto di più lontano possa esistere dal renzismo, sul punto specifico sembra nutrire più di un dubbio sulla fattibilità di una riapertura del dibattito sul Senato elettivo. Staremo a vedere.

La “Cosa rossa”

Non è ancora nata e già litiga: un classico della sinistra, cui ovviamente non si sottrae nemmeno la costituenda “Cosa rossa” di Fassina e Civati. Una parte dei senatori di SEL, infatti, capeggiata dal pugliese Dario Stefàno, presidente della Giunta per le elezioni, le autorizzazioni e le immunità di Palazzo Madama, sembra essere in grande sofferenza, in quanto l’orientamento del nuovo soggetto politico escluderebbe ogni ipotesi di alleanza con il PD non solo a livello nazionale ma anche a livello locale, in vista delle Amministrative di primavera. E naturalmente ha ragione chi si orienta in tal senso, a cominciare da Pippo Civati, autore a luglio di un’aspra polemica con i vendoliani sardi circa la scelta se sostenere o meno la ricandidatura del sindaco Zedda a Cagliari: sarebbe, difatti, alquanto difficile spiegare alle migliaia e migliaia di militanti in fuga dal PD, a causa della sua netta svolta a destra, che ciò che a Roma viene considerato un attentato alla democrazia a Napoli, a Torino, a Cagliari o a Milano, invece, va benissimo. Perché quando si parla di città di questo livello il discorso è sempre nazionale e difficilmente si può risultare credibili se ci si presenta sul palco insieme a quegli esponenti con i quali in Parlamento la rottura è da tempo totale e definitiva, con tanto di accuse reciproche, scambi di battute al vetriolo e critiche durissime da entrambi i fronti.

Comprendiamo, pertanto, il malumore di quanti, specie in SEL, vorrebbero difendere le belle esperienze civiche di Zedda e De Magistris e vorrebbero trovare un degno successore di Pisapia a Milano, e comprendiamo anche il rischio che andando da soli, contro il PD, si consegnino città importanti alla destra lepenista di Salvini; ma pensiamo, al tempo stesso, che andare col PD significherebbe soffocare in culla il nascente soggetto politico, in quanto lo si priverebbe di ogni autonomia identitaria, di ogni respiro innovativo, di ogni proposta politica forte e caratterizzante, rinchiudendolo in un recinto tradizionale che l’ala dura del grillismo non esiterebbe a bollare come mera conservazione e spartizione di poltrone. Anche qui, ne vedremo delle belle.

Il M5S

Veniamo ora al soggetto politico senz’altro più interessante, almeno dal punto di vista dell’analisi politologica. Il M5S, infatti, pur presentandosi come un monolite senza smagliature e, meno che mai, correnti, è un arcipelago vasto e frastagliato nel quale, sostanzialmente, convivono due scuole di pensiero. La prima è quella incarnata dal sindaco Pizzarotti: un buon amministratore che sta faticosamente risanando Parma e dichiara, a proposito dei suoi vertici (“l’Espresso”, 6 agosto 2015): “Sento un distacco ingiustificato da parte dei miei vertici nazionali che non raccontano quello che facciamo. Non ho contatti con loro da mesi e non ho partecipato all’ultima manifestazione. Forse non è chiara la differenza fra essere opposizione e governare in un contesto dove si deve lavorare con tutti. Vale per l’Emilia e vale per l’Italia”. Se non è una dichiarazione di rottura, poco ci manca; d’altronde, non è la prima volta che il primo importante sindaco stellino prende le distanze dal duo Grillo-Casaleggio ma anche dai cinque membri del Direttorio, e lo fa su una base sia pragmatica che, a nostro giudizio, ideologica. Pragmatica, perché amministrando si è reso conto che, pur mantenendo fede ad alcune promesse elettorali e fatti salvi i punti programmatici essenziali del movimento, certe esagerazioni e certe chiusure settarie costituiscono la negazione stessa della politica, quindi è bene evitarle; ideologica, perché anche se Pizzarotti, al pari di tutti gli altri stellini critici, non lo ammetterà mai, ha ragione Bersani quando afferma che “la sinistra esiste in natura” e che la vera divisione all’interno del movimento è fra chi strizza l’occhio al leghismo e chi avrebbe fatto partire il famoso “governo del cambiamento” proposto dall’ex segretario del PD.

La seconda scuola di pensiero è, invece, quella direttoriale: duropurismo e chiusura totale, nessuna alleanza se non sui singoli temi (che non si è ancora ben capito quali siano), isolazionismo con tanto di autocompiacimento e toni “à la Fantinati” e “à la Di Battista”, perfetti per rinsaldare i legami interni e fare gruppo ma del tutto inutili in un’ottica espansiva, in quanto difficilmente un ex elettore del PD potrebbe mai condividere certe sparate.

È un problema? No, è una vera e propria tragedia perché in quel movimento ci sarebbero energie, risorse, capacità e competenze che, messe al servizio di un progetto politico più ampio, potrebbero innovare e rendere migliore l’Italia; e c’è una giovane classe dirigente di tutto rispetto che cresce a vista d’occhio, si fa avanti, propone idee e norme interessanti, si batte al fianco degli ultimi e dei deboli, svolge il mestiere che la sinistra ha rinunciato a svolgere da vent’anni ed è diventata, in diversi casi, un’icona delle proteste degli ultimi mesi contro alcune delle peggiori riforme del governo Renzi, a cominciare dalla Buona scuola. Peccato che queste persone le conoscano solo una parte dei militanti stellini e qualche addetto ai lavori, fra quelli con meno pregiudizi nei confronti del Movimento 5 Stelle, che non vadano quasi mai in tv, che non siano valorizzate abbastanza, che non influiscano mai o quasi mai sulle scelte d’indirizzo del gruppo e che, temiamo malignamente noi, non saranno ricandidate al prossimo giro. E peccato, infine, che di quel movimento emergano solo le pur commendevoli battaglie contro gli sprechi della “casta” ma non si parli mai dell’incredibile lavoro svolto, ad esempio, dai membri della commissione Giustizia alla Camera, della legge sugli eco-reati targata Salvatore Micillo e di tante altre nobili iniziative che potrebbero attrarre nella loro orbita non soltanto i disillusi che ormai non votano più ma anche le tante persone in cerca di una rappresentanza adeguata dopo la definitiva mutazione genetica del Partito Democratico.

Restare un gruppo di pressione, scopiazzando malamente l’ottimo lavoro svolto dal Fatto e da altri organi d’informazione di denuncia. o trasformarsi in una forza politica a tutti gli effetti, scendendo finalmente sul terreno del confronto, del dialogo e della proposta concreta? Gabanelli o Rodotà? Finché il Movimento 5 Stelle non sceglierà questo dilemma, pur avendo l’oro dentro, non sarà né carne né pesce, con il rischio, a lungo andare, di dividersi fra chi vuol provare a costruire un futuro migliore per il Paese e chi, invece, sembra accontentarsi di mettere a nudo le numerose magagne esistenti.

Alternativa Libera

È un piccolissimo gruppo di ex stellini, costituitosi da poco, in seguito alla fuoriuscita o all’espulsione dei medesimi dal Movimento 5 Stelle, e merita attenzione perché, pur trattandosi di una formazione minuscola e apparentemente senza grandi prospettive, potrebbe invece costituire una componente importante di un’eventuale coalizione alternativa al renzismo e al salvinismo. Sta a loro decidere cosa vogliono essere e cosa vogliono fare da grandi, ma la qualità dei membri di questo gruppo mi induce a consigliarvi di non sottovalutarli.

Forza Italia, la Lega, Fratelli d’Italia, Conservatori e Riformisti, Scelta Civica e Area Popolare

È l’ex centrodestra, la Casa delle Libertà del 2001, la coalizione che stravinse nel 2008 e che, con ogni probabilità, è destinata a non ricomporsi. Non si ricomporrà perché ormai è chiaro che Alfano e Casini abbiano scelto Renzi, attratti dalla prospettiva centrista del Partito della Nazione, con tanto di benedizione di CL e dei gruppi di potere summenzionati; come è chiaro che Forza Italia, avendo esaurito il suo ciclo vitale e la sua ragione di esistere, imploderà, dividendosi fra chi seguirà la rotta salviniana e chi sceglierà la via renziana. A tal proposito, la dicotomia sembra essere ben incarnata dai due capigruppo: l’“aziendalista” (nel senso di Fininvest) Romani e il “rivoluzionario” Brunetta, con il primo che smorza i toni, smussa gli angoli e cerca, sia pur senza troppa enfasi, di convincere il Cavaliere a tornare nazareno e il secondo che abbraccia senza remore il leader leghista e la sua linea oltranzista.

Fratelli d’Italia la sua scelta l’ha già compiuta, manifestando insieme alla Lega e al movimento Sovranità, a Roma, lo scorso 28 febbraio, votando con il Carroccio Feltri quale candidato di bandiera alla presidenza della Repubblica e sostenendo a spada tratta le battaglie contro i migranti e per l’uscita dall’euro.

Qualche dubbio sulle future scelte dei fittiani, i quali amano poco sia Renzi che Salvini, hanno assistito con sommo fastidio allo sfarinamento del partito in Puglia e non sembrano avere ancora le idee chiare su dove collocarsi. I montiani, al contrario, sono quasi tutti renziani della prima ora: qualche posto sicuro nel Partito della Nazione per loro è assicurato o, in caso di revisione dell’Italicum e ripristino del premio alla coalizione (la vedo dura ma non è un’ipotesi da escludere a priori), formeranno una o più liste insieme ad Area Popolare e ai verdiniani di ALA, a sostegno del PD e di Renzi.

In conclusione, la domanda delle domande: si andrà a votare? A Roma e in Sicilia probabilmente sì, ma solo quando il Partito della Nazione si sarà ben strutturato e consolidato. In tal senso, l’annunciata presenza di Marchini alla manifestazione per la legalità indetta dal PD per il prossimo 3 settembre è indicativa: chi meglio di lui incarna lo spirito del Partito della Nazione?
A livello nazionale, al momento, a Renzi non conviene, a meno che davvero non si verifichi un Armageddon in occasione dell’approvazione della riforma del Senato: in quel caso, non ci sarebbe alcun Renzi-bis ma elezioni anticipate, con l’Italicum alla Camera (è vero che dovrebbe entrare in vigore solo dal 1° luglio 2016 ma per modificare questo dettaglio basta un Consiglio dei Ministri di cinque minuti), il Consultellum al Senato e un nuovo Patto del Nazareno con i resti di Forza Italia dopo le elezioni e una campagna elettorale tutta giocata sull’assalto ai “gufi che frenano le riforme e paralizzano l’Italia da vent’anni”. Salvo poi andarci amabilmente a braccetto, ma in fondo: siamo o non siamo il Paese del Gattopardo?


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