Cosa faranno adesso i 5 Stelle?

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Quelli come me, per una volta, dovrebbero tacere. Quelli come me dovrebbero vergognarsi per come si sono comportati in questi anni, per le malvagità gratuite che hanno scritto, per la vigliaccheria con la quale si sono scagliati contro dei propri coetanei che si sono messi in gioco con pochissimi soldi e moltissima passione per svolgere un lavoro che la sinistra tradizionale aveva deciso di lasciare ad altri. Quelli come me, prima di parlare ancora del Movimento 5 Stelle, dovrebbero guardarsi dentro e chiedere umilmente scusa perché non solo di loro non abbiamo capito nulla ma li abbiamo anche giudicati con una ferocia che non avremmo riservato nemmeno al peggiore dei tiranni.

Quelli come me – giornalisti, opinionisti, commentatori – dovrebbero farsi un ampio esame di coscienza, soprattutto se abbiamo sbagliato in buona fede (il che costituisce un aggravante perché somma alla perfidia l’ignoranza), se ci siamo scagliati contro queste persone credendo davvero che fossero dei mostri, se abbiamo continuato a guardare il comico che urlava dal palco, talvolta anche esagerando e andando oltre i limiti del buongusto, anziché soffermarci sui volti delle migliaia di persone, per lo più giovani, che stavano lì ad ascoltarlo, ritrovando in quel momento un briciolo di speranza.

Quelli come me, trovandosi in piazza con gli insegnanti massacrati dalla Pessima scuola ideata dal duo Renzi-Giannini, non hanno il diritto di lamentarsi se vengono fischiati e accolti a male parole da un mondo che noi per primi abbiamo ignorato e tradito: ci meritiamo ogni attacco, ogni insulto e anche l’infamia massima di essere considerati dei ciarlatani che in piazza dicono una cosa e sui giornali o in Parlamento, dovunque andiamo poi a far danni, si comportano in maniera diversa.

Quelli come me che per mesi, direi per anni, hanno cercato mediazioni e compromessi al ribasso con il liberismo arrembante che stava devastando il futuro di intere generazioni non possono oggi far finta di niente e criticare la riforma Fornero come se non fossimo stati i primi a sostenerla: noi l’abbiamo votata, chi era in Parlamento, noi l’abbiamo spacciata per indispensabile, chi scrive sui giornali, noi siamo chiamati a rispondere delle nostre colpe.

Perché tanto lo sapevamo che non eravamo noi ad essere coinvolti in prima persona: non eravamo noi gli esodati, ritrovatisi da un giorno all’altro senza pensione e senza stipendio e, in alcuni casi, suicidatisi per disperazione; così come non eravamo noi gli operai licenziati su due piedi perché iscritti alla FIOM o perché vittime di una riorganizzazione industriale; e non eravamo noi nemmeno a dover vivere con meno di mille euro al mese mentre venivano aumentate tutte le imposte, locali e nazionali, e si avviava la distruzione dell’articolo 18 e dello Statuto dei Lavoratori, poi portata a compimento dal governo Renzi. Non eravamo noi a piangere le conseguenze più brutali e tragiche della crisi, dunque chi se ne importa e andiamo avanti, venendo meno alle ragioni stesse della sinistra, alla nostra storia, ai famosi “ideali della gioventù” di cui parlava Berlinguer e anche, se è lecito dirlo, alla nostra coscienza e alla nostra dignità di uomini, di giornalisti, di politici, di intellettuali e di persone che si sarebbero potute, in qualche modo, opporre e invece sono state complici di questa devastazione.

Quelli come me che hanno spacciato le larghe intese montiane per un bene, serrando porte e finestre senza accorgersi che a premere alle porte non erano i barbari ma una miriade di cittadini indignati e con ottime ragioni per esserlo, sono gli stessi che avevano ribadito per mesi: mai col PDL, salvo poi rifiutare l’opzione Rodotà, mandare allo sbaraglio Prodi e, infine, umiliare e cacciare in malo modo un galantuomo come Enrico Letta che, quanto meno, aveva provato, pur dovendo governare insieme alla destra, a dire e fare qualcosa di attinente al programma col quale ci eravamo presentati alle elezioni.

Quelli come me, soprattutto i più giovani, sono doppiamente colpevoli: perché ciechi, codardi e intrisi di pregiudizi e perché incapaci di comprendere che in quelle piazze non c’erano degli estranei invasati, quasi degli alieni, ma i nostri compagni di scuola e i nostri colleghi di corso all’università, ragazzi come noi che non stavano lì a pendere dalle labbra di un capellone che preconizza la fine del mondo ma volevano sentir parlare di reddito di cittadinanza, di dignità della persona, di un modello di sviluppo più umano e sostenibile, di tutela del paesaggio e del territorio, di difesa dei beni comuni e di tutte quelle cose che noi abbiamo prima ignorato e poi sabotato, consentendo alla finanza internazionale di venire a dettar legge e a manomettere persino l’esito dei referendum del 2011 sull’acqua pubblica.

Quelli come me – timidi, titubanti, assenti, più interessati alle beghe di partito e di corrente che alla realtà straziante di un Paese in ginocchio – quelli come me non possono andare oggi a spiegare agli altri come si fa politica o accusare chi di noi non ne vuole più sapere di essere un “populista”. Innanzitutto, perché da quando c’è Renzi, l’anti-politica di governo è ormai patrimonio quasi esclusivo del PD; in secondo luogo, perché, pur essendo contrarissimo ad alcuni tratti demagogici del Movimento 5 Stelle e pur nutrendo seri dubbi sulla fattibilità di alcune loro proposte, comincio a pensare che l’ottanta per cento del loro programma sia corrispondente ai sogni e ai desideri di un uomo di sinistra; infine, perché il rispetto per le ragioni dell’altro, l’idea di includere e di non chiudersi in se stessi, il movimentismo e l’attenzione a ciò che matura nel grembo della società non sono insegnamenti che mi derivano dal “Sacro blog” (che in vita mia avrò letto due-tre volte) ma dalla lettura di gente come Moro, Berlinguer, Pertini, Ingrao, Dossetti: tutti soggetti di cui ci riempiamo la bocca senza averli nemmeno capiti o di cui parliamo con grande enfasi dopo averli costantemente calpestati per decenni.

Perché, a volte, ascoltando alcuni esponenti del Movimento 5 Stelle, soprattutto i più giovani, mi viene la bislacca idea che loro Berlinguer se lo siano letto davvero, a differenza nostra che continuiamo a citarlo dopo essercelo messo sotto i piedi per trent’anni. Per questo, personalmente, ho apprezzato moltissimo la richiesta dell’onorevole Silvia Chimenti, durante la dichiarazione di voto alla Camera sulla Pessima scuola, di togliere il nome di Berlinguer dalla sala riunioni del PD: dopo tutto quello che abbiamo votato, sostenuto e difeso a spada tratta, non ne siamo più degni.

Mai, infatti, Berlinguer avrebbe accettato l’idea dell’uomo solo al comando; mai avrebbe accettato di assistere inerte a questa guerra fra poveri, in cui il capo del governo continua a parlare di “apartheid” generazionale per giustificare l’eliminazione dei pochi diritti rimasti a chi ancora ne conserva qualcuno; mai avrebbe permesso la cancellazione dell’articolo 18 e la scomparsa delle tutele dai luoghi di lavoro; mai avrebbe acconsentito al varo di una legge elettorale irrispettosa della rappresentanza popolare; mai avrebbe tollerato lo stravolgimento della Costituzione e la modifica surrettizia della forma di governo in senso presidenzialista, per giunta ad opera di un Parlamento eletto con una legge elettorale giudicata incostituzionale dalla Consulta e senza prevedere i necessari contrappesi democratici; mai avrebbe avallato la distruzione del paesaggio e del territorio a colpi di trivelle, opere inutili e colate di cemento e mai, e sottolineo mai, avrebbe permesso l’accantonamento della “questione morale”, in nome dell’idea malsana di dover vincere sempre, comunque e ad ogni costo (cosa che, fortunatamente, non è avvenuta), e lo sfiancamento della scuola pubblica in nome dell’ipercompetizione liberista, con la meritocrazia brandita come una clava per far accettare ai cittadini il principio secondo cui i deboli devono sempre e per forza soccombere, in una visione darwinista dello stare insieme che a un uomo di sinistra dovrebbe suscitare brividi di indignazione. Invece, salvo poche eccezioni, ancora una volta, gli eredi di quella tradizione storica, politica e culturale hanno votato tutto senza batter ciglio, dimostrando, se ancora ce ne fosse bisogno, che la fedeltà al partito viene prima della fedeltà al Paese, venendo così meno alle ragioni stesse per le quali milioni di cittadini li avevano mandati in Parlamento, nel 2013, con la speranza di lasciarsi definitivamente alle spalle il ventennio berlusconiano, salvo poi ritrovarsi a dover fare i conti col berlusconismo al cubo del suo erede naturale.

Quelli come me, più o meno direttamente responsabili di tutto questo sfacelo, quelli come me che hanno coperto, smussato gli angoli, tentato di far finta di niente e considerato normale ciò che non solo non era normale ma era, ed è tuttora, assolutamente inaccettabile, quelli come me non possono parlare di sinistra senza scadere nel ridicolo.

E aggiungo: non abbiamo nemmeno il diritto di pretendere da questo movimento di uniformarsi ai nostri desideri, alle nostre modalità comunicative e alle nostre richieste, anche perché spesso quei ragazzi si sono messi in gioco proprio per contrastare ciò che noi rappresentiamo e noi, sempre più chiusi nelle nostre stanze, non lo abbiamo capito e abbiamo preferito puntare il dito con arroganza rara.

Sbagliarono nel 2013 a non far partire il governo del cambiamento a guida Bersani? Probabilmente sì, e va riconosciuto a Pierluigi di averci provato con serietà e impegno: male ma almeno lui e Letta ci credevano davvero. Ma quando abbiamo avuto l’occasione di dar vita a questa svolta storica, anziché abbracciare uno di noi, il professor Rodotà, abbiamo mentito a noi stessi, sprofondando in un baratro senza ritorno.

Pertanto, quelli come me è bene che d’ora in poi osservino e ascoltino, che tornino a frequentare strade e piazze, a consumare le scarpe e a riempire i taccuini, a osservare i volti e a contare fino a dieci prima di aprire bocca o di riversare inchiostro velenoso su un foglio.

Solo allora, forse, i nostri imperdonabili errori potranno essere letti in una luce diversa; solo allora, forse, avremo nuovamente quel minimo di credibilità necessario a chi vuole fare politica e solo allora, forse, potremo porre a persone che abbiamo schifato e trattato come appestati per anni, fino a votare contro proposte ragionevoli solo perché le avevano presentate loro, la domanda di Fabrizio De André: “Continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai”?


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