Se spaventa chi può vincere, allora è sbagliato il sistema

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“Ma dove vanno quelli che abbandonano il Pd: sono quattro gatti. E poi, non votando Renzi, si favoriscono solamente i vari Grillo e Salvini; mi spaventa solo l’ipotesi che essi possano vincere”. Così ieri un amico. La sua preoccupazione, però, appare incoerente con la narrazione che nella stessa frase è ripetuta. Se quelli che vanno “sono quattro gatti”, il loro andare non sposta alcun equilibrio. Se non lo sono, era al loro rimanere che doveva tendere l’azione di chi guida il partito, non al cercare in tutti i modi di marginalizzarli, ridicolizzarne le richieste, augurarsene l’uscita con la superbia arrogante del #cenefaremounaragione.

Il punto, però, non è affatto una questione di sensibilità ferite; è una questione politica. E il ricatto, “se no vince quello sbagliato”, non funziona. Uno, perché questa storia l’abbiamo già sentita. Nel 2008 sostenevo una proposta politica di sinistra alternativa al candidato che, in quell’area, aveva più possibilità di vittoria. Con la scusa del “voto utile” per sconfiggere Berlusconi, è finita che quella proposta a cui guardavo, e che era accusata da Veltroni di fare solo il gioco del “principale avversario dello schieramento avverso”, è stata cancellata dal Parlamento, mentre quelli che quel voto predicavano, proprio con chi dovevano sconfiggere, e con i suoi alleati e sodali, sono poi finiti a sostenerci insieme un governo nel corso di quella legislatura e a farne un altro nella successiva.  E due, perché in democrazia non si può “aver paura” che vinca quello sbagliato. Altrimenti, sbagliato è il sistema.

Insomma, dico, se il meccanismo di selezione dei governanti è quello giusto, che “tutta l’Europa vorrebbe copiarci”, allora che problema c’è? Giusto il meccanismo, giusti saranno i risultati che produrrà. Candidati sbagliati, saranno respinti dagli elettori giusti, e se vincono, vuol dire che sono quelli giusti per quegli elettori. E comunque, le democrazie hanno anche tanti meccanismi di controllo e di bilanciamento. Nel nostro caso, il Parlamento e le sue funzioni, la magistratura indipendente, il ruolo di garanzia del presidente della Repubblica. Infine, i partiti, da noi, sono organizzati “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica”, trasparenti nelle scelte, quindi, e rispettosi delle regole.

Certo, se tutti questi organi dovessero essere intesi come determinati e condizionati dalla maggioranza, dal partito più forte e dal Governo che esso produce e sostiene o, peggio, dal leader che ha vinto le elezioni, allora il discorso cambierebbe, e potrebbe diventare davvero preoccupante. Ma non siamo a questo punto.

Noi non siamo al punto in cui le Camere sono subordinate alle continue, pressanti e costanti azioni di forzatura da parte dell’Esecutivo, con voti di fiducia quasi intimidatori, abuso della decretazione governativa, priorità, per non dire quasi esclusività, nell’approvazione delle leggi disegnate dal Consiglio dei ministri, senza rispetto per l’azione di proposta e modifica dei testi da parte dei singoli parlamentari.

Noi non siamo al punto in cui la magistratura viene ridicolizzata per delegittimarne figura e pronunciamenti, con discorsi banali sul numero dei giorni di ferie, e posta dinnanzi alla responsabilità civile intesa quale azione vendicativa, chiaramente più alla portata di giudicati ricchi e potenti che non di altri.

Noi non siamo al punto in cui il capo dello Stato può diventare appannaggio di una maggioranza semplice, di un solo partito o poco più, e dove esso è frutto e premio degli accordi di quella maggioranza, che sulla sua figura possono nascere o rompersi.

E soprattutto, non siamo al punto in cui c’è d’aver paura che i partiti possano candidare personaggi impresentabili nelle loro liste o allearsi con quelle che questi presentano,  che al loro interno pratichino una sorta di “democrazia basica” e puramente formale, in cui the winner take it all, quasi fosse una canzone degli Abba, e, for all, decide il capo.

Perché, ripeto, non siamo a questo punto, giusto?


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