Matteo Renzi e la democrazia del capo

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Se c’è un tratto caratteristico, un filo rosso che lega le varie riforme renziane è senz’altro la concezione verticistica, e spesso padronale, della democrazia. Non siamo in grado di stabilire se in questa singolare concezione del governo e del rapporto con istituzioni e corpi intermedi si annidino i germi di una possibile svolta autoritaria, ma una cosa è certa: stiamo assistendo all’instaurazione di un regime democratico piramidale, in cui viene meno la maieutica dossettiana, viene meno la cultura dell’inclusione propria dei morotei, viene meno persino il consociativismo (male atavico ma, talvolta, necessario per la tenuta del nostro sistema Paese) e si afferma una visione esclusivamente verticale del comando, nella quale al di sopra di tutti c’è un capo dai poteri pressoché illimitati e i luoghi di discussione, dialogo e confronto sono ridotti a meri orpelli, privi di qualsiasi facoltà decisionale, per non dire proprio a votifici senz’anima.

Sarà così con l’Italicum, in base al quale il presidente del Consiglio, chiunque esso sia, disporrà di una Camera di fedelissimi, scelti, per lo più, da se medesimo, e di un Senato di dopolavoristi in gita premio, con funzioni e compiti esorbitanti per un semplice consigliere regionale, scelto per di più dai propri colleghi e non più dagli elettori. “Ce lo copieranno ovunque” sostiene lo spregiudicato Premier attuale, il che, ottemperando a una vecchia legge dell’economia secondo cui “la moneta cattiva scaccia la moneta buona”, è purtroppo persino possibile, considerando anche lo stato comatoso in cui versa la maggior parte delle democrazie europee, sfibrate dalla crisi, incapaci di reagire a corruzione e malaffare, dilaniate dal liberismo arrembante impostosi nell’ultimo trentennio e sempre più in preda a pulsioni fasciste, razziste e xenofobe, con l’avanzata dei vari partiti e movimenti estremisti sancita dalle ultime elezioni Europee. Bersani ne dubita fortemente, ribattendo che nel resto dell’Occidente abbiamo a che fare con democrazie autorevoli e mature, le quali contengono in sé tanto il virus del degrado quanto gli anticorpi in grado di debellarlo e tutelare l’assetto democratico e istituzionale instauratosi nell’immediato dopoguerra. Ci auguriamo di cuore che abbia ragione, altrimenti sarebbero guai per tutti.

Tornando alle vicende italiane, nel disegno renziano non c’è solo l’Italicum ma anche la riforma della RAI, la quale ovviamente prevede la nomina di un amministratore delegato che, stando alle anticipazioni, somiglierebbe più al megadirettore galattico di fantozziana memoria che a un dirigente con poteri chiari e ben delimitati.

Senza contare la riforma della scuola, detta anche “Buona scuola”, la cui unica, vera novità, al netto delle sparate di Poletti e dei renziani di complemento disseminati un po’ ovunque, riguarderebbe il rafforzamento dei poteri del preside: anche in questo caso, in futuro, potremmo avere a che fare più con un megadirettore galattico che con un dirigente con poteri ampi ma ben definiti.
E lo stesso vale per la pubblica amministrazione, per gli enti locali e per qualunque altro soggetto o istituzione cardine del Paese, a dimostrazione di una concezione assai diversa, per non dire totalmente opposta, degli assetti di potere rispetto a quella disegnata dai costituenti, consci di quanto fosse saggia e tristemente veritiera l’analisi di Gobetti secondo cui il fascismo non costituisce una parentesi o un infortunio della storia (clamoroso errore d’interpretazione di Benedetto Croce) bensì l’“autobiografia della Nazione”: la sintesi di un Paese fragile e mai davvero compiuto, nel quale le pulsioni autoritarie, comunque si manifestino, sono sempre drammaticamente all’ordine del giorno.

La scommessa di Renzi, a dispetto di tutte le interpretazioni malevole che ne vengono tracciate, è la seguente: questo Paese è stato bloccato per vent’anni da incomprensioni, errori e intollerabili veti incrociati; mettete tutto il potere nelle mie mani e io, con le mie indubbie e indiscutibili capacità, lo sbloccherò e lo condurrò nel futuro.

Il tragico limite di quest’interpretazione è la mancanza, da parte del nostro giovane leader, di quello storicismo un tempo considerato, a ragione, una condizione imprescindibile per assumere un qualunque ruolo di comando: se conoscesse un po’ meglio la storia, quanto meno quella sportiva, saprebbe infatti che anche Fausto Coppi, l’“uomo solo al comando” per eccellenza, aveva accanto a sé numerosi gregari pronti a dargli una mano, per il semplice motivo che, per quanto uno possa essere bravo, il capolavoro della fuga solitaria da Cuneo a Pinerolo può riuscire una volta nella vita ed essere ricordato come l’emblema di una carriera straordinaria ma non può essere la norma, in quanto la politica, al pari del ciclismo, è e rimane un gioco di squadra. E anche negli sport individuali i grandi campioni si sono sempre avvalsi dei consigli e del supporto di uno staff all’altezza: Mennea, per dire, difficilmente avrebbe vinto ciò che ha vinto se dietro non avesse avuto la preparazione e la competenza del professor Vittori.

I salvatori della patria, gli uomini della provvidenza, i padri dei popoli e i santi della rivoluzione sono tutte figure tipiche di narrazioni da cui invitiamo Renzi a rifuggire perché, oltre a non avere niente a che fare con la democrazia, si sono rivelate storicamente dei colossali fallimenti, con conseguenze che non augureremmo a nessun popolo di subire.


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