Forse è il caso di rivedere il racconto

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“Il Jobs Act sarà un importante stimolo al rilancio dell’occupazione e darà agli imprenditori gli   strumenti necessari per riprendere ad assumere”. “La Youth Guarantee rappresenta un’occasione   unica d’ingresso per i giovani nel mondo del lavoro”. “Aumentano i nuovi contratti e ci sono   segnali di inversione di tendenza”.  Quante volte sentiamo frasi come queste e quanto spesso sono accompagnate da richiami alla   speranza e alla fiducia. Ma se è così, allora chi sono quelli che protestano contro i provvedimenti  del Governo e della maggioranza, che indicono forme di sciopero anche sociali, che rivendicano   una presenza più alta e diversa nella rappresentanza che della società viene data?

Chi sono i ragazzi  che protestavano davanti al Senato? Chi gli operai che scendono in piazza contro le riforme   dell’Esecutivo, i movimenti che contestano i ministri e i loro provvedimenti, gli studiosi e gli   studenti che denunciano un cammino sbagliato nell’azione politica della maggioranza?  Sale la disoccupazione, ed è drammatica quella giovanile. Aumentano le disuguaglianze, e sono  sempre più insostenibili e vergognose.

Cresce il numero dei poveri, e anche di chi ha fame e   non per modo di dire. Dalla terra in cui sono nato si continua a emigrare, e in questa dove vivo   ora, ogni giorno le notizie economiche parlano di difficoltà aziendali, aumento delle ore di   cassa integrazione, crisi di interi settori. Non è che non voglio essere ottimista, come chiedono i   governanti: è che, tutti i giorni, la realtà mi spiega il contrario.  Quel reale che incontri al bar o al supermercato, e sempre più spesso fuori di esso, e che, con le   parole di un amico, nelle quali senti lo scetticismo e l’amarezza che può diventare rancore e rabbia,   ti dice: “fan presto loro a vedere tutto bello; i problemi sono nostri”.

Noi, loro, i fiduciosi perché   vincenti, gli sfiduciati che hanno già perso: una miscela pericolosa, che un’interessata e squallida   propaganda cerca di fomentare, ma per la quale, ed è ancora peggio, l’arrogante autocelebrazione   trionfalistica dei potenti può essere il detonatore.  Forse è il caso di rivedere e di cambiare il racconto che il potere e i suoi amministratori stanno   facendo delle cose che accadono. Quell’insistere sui fasti dell’affermazione e dei successi dei   meritevoli, alle orecchie di quanti vengono sconfitti e per questo emarginati, suonano come   un’accusa di colpevolezza.

Sembrano dire: “noi, i bravi, stiamo bene e crediamo in questa società.   Voi siete perdenti per colpe vostre, per questo rosicate e non credete in essa”.  Perché sono importanti le parole, certo, ma anche i toni e gli atteggiamenti. L’ostentazione della   vittoria da parte degli arrivati, contornata di tutta quella falsa retorica sulla vuota mitologia   meritocratica, può essere offensiva, e alla lunga incattivire l’animo e il cuore di quelli che non   Verrebbe da chiederlo come accorato appello, quasi come preghiera: non giocate con quel fuoco, a   voi che è toccato in sorte il destino d’essere i migliori; potrebbero diventare rischiose e ingestibili le   forze che state continuamente attaccando. Verrebbe, appunto, se già non si sapesse che simili parole   sarebbero ignorate o respinte con fastidio.


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