Rabbia fiammeggiante degli U.s.a

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Domenica 30 novembre cinque attaccanti dei Saint Louis Rams sono scesi in campo alzando le mani al cielo. Stedman Bailey, Tavon Austin, Jared Cook, Chris Givens e Kenny Britt hanno infatti deciso di omaggiare il ricordo di Michael Brown, diciottenne adolescente afroamericano deceduto in seguito ad una scarica di proiettili sparati da un agente della polizia di Ferguson, Missouri. Il messaggio degli atleti è stato un esplicito riferimento all’ultimo gesto del giovane Brown: “ho le mani in alto, non spari”.

Era il 9 agosto quando Darren Wilson, il suddetto poliziotto, mise mano alla pistola per frenare la fuga di un ragazzo che, stando alle autorità locali, era stato sorpreso a rubare una scatola di sigari.

Ferguson è piombata nel caos e la gente si è riversata per le strade.

Il 18 agosto è stato necessario l’intervento del presidente Obama per scongiurare la tragedia e imporre alla guardia nazionale di declinare la convocazione del governatore Jay Nixon.

L’ondata di indignazione ha investito l’intero paese, risvegliando gli stereotipi di un conflitto etnico mai del tutto sopito. La disparità di trattamento e la disuguaglianza dinnanzi alla legge sono i nodi focali dell’irrisolta questione. Al di là della necessaria analisi di contesto, i numeri avvalorano le rivendicazioni della NAACP (National Association for The Advancement of Colored People): metà dei maschi sotto i ventitré anni hanno subito un arresto e il 65% di chi si trova in carcere per “crimini non violenti” è di origine afroamericana.

Negli ultimi anni la giustizia statunitense si è inoltre dimostrata incapace di adattarsi alla mutevolezza dei tempi. Un pacchetto di leggi votate alla repressione violenta e ad un anacronistico machismo consente infatti alla polizia di usare “forza letale” qualora risulti “oggettivamente ragionevole”.

Ferguson si è preparata per 108 giorni ad accogliere la sentenza della grand jury; intere giornate sono state dedicate alla sensibilizzazione dei cittadini per l’organizzazione di manifestazioni pacifiche. Poi l’assoluzione: il procuratore della contea Robert McCulloch ha considerato la materia troppo scottante e ha preferito farsi da parte, mentre la grand jury ha ritenuto le prove insufficienti per la stessa incriminazione; Ferguson non ha retto. I proclami di non-violenza si sono sono infranti sulle lamiere dei mezzi anti-sommossa e qualsiasi invito alla calma si è confuso tra le grida degli insorti.

Per una settimana è calato l’inferno. La prima reazione, violenta, sono state le fiamme, un fuoco distruttore che  ribolle nel sangue e si alimenta di odio e benzina. Sulle ceneri dell’impulso si è imposta la ratio, con la successiva creazione di un movimento le cui lacrime animassero dal cuore piuttosto che dai gas lacrimogeni. È nata quindi la “marcia per i diritti civili di Ferguson”, un cammino di 7 giorni a cui hanno partecipato oltre 150.000 attivisti.

La storia di Michael Brown è soltanto l’ennesima voce nella scabrosa cronologia di un conflitto senza pace. Nel paese più ricco del mondo, la parità politico-giuridica non è riuscita a sostenere il passo della crescita economica, ma tra le strade dei sobborghi a stelle e strisce si respira la necessità di affrontare le riforme. In attesa di nuovi sviluppi, i Saint Louis Rams hanno vinto 52-0; una vittoria storica, dedicata alla memoria di Michael Brown e animata da un sentimento di rivalsa e giustizia in nome del quale si batte ogni giorno la pelle scura dell’America.


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