3 ottobre. Tre donne raccontano i viaggi della speranza verso Lampedusa

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Gladys, Semhar e Nasreem sono le protagoniste di “Come il peso dell’acqua”, un documentario di Andrea Segre e Stefano Liberti trasmesso questa sera in occasione della Giornata della memoria. Narratori civili d’eccezione: Giuseppe Battiston e Marco Paolini

ROMA – Ma perché uno si mette in testa di diventare clandestino? Tutta questa gente, che sa che rischia la vita e parte lo stesso, perché lo fa, se sa che è pericoloso da anni e anni e anni? E se sei una donna, una madre, come puoi fare un viaggio del genere con i tuoi figli? Giuseppe Battiston è chiuso dentro una grande stanza vuota, e si interroga come molti italiani su questo fenomeno di massa che è l’immigrazione. Sempre presente sui mezzi di informazione, in termini di emergenza, ma mai realmente conosciuto e compreso nelle sue dinamiche interne. E così ad aiutarlo a capire cosa c’è dietro questo movimento di persone, che quest’anno ha fatto registrare circa 140 mila arrivi nel nostro paese, saranno le parole, i volti e le storie di Gladys, Semhar e Nasreen ma anche le spiegazioni di un cartografo d’eccezione, Marco Paolini. Sono loro i protagonisti di “Come il peso dell’acqua”, un documentario di Andrea Segre e Stefano Liberti, realizzato in collaborazione con Marco Paolini e Giuseppe Battiston, che andrà in onda stasera, alle 22.30 nella puntata speciale che Rai3 dedicherà alla commemorazione del primo anniversario della strage di Lampedusa, costata la vita a 366 persone.

Il documentario, che mescola il linguaggio cinematografico a quello teatrale, prende il via proprio con il ricordo di quel tragico 3 ottobre di un anno fa, attraverso la soggettiva di un sommozzatore che scivola sul fondo del mare, avvicinandosi a un peschereccio di legno adagiato sul fondo. Qui si scorgono appena alcune sagome, corpi che ancora oggi “non riusciamo a guardare”. Un rifiuto che rasenta la paura e fa nascere nel narratore Battiston un bisogno di comprensione, e dà il via a un vero e proprio percorso di conoscenza, che ricorda la tv pedagogica di Alberto Manzi. Saranno tre donne migranti a raccontare le speranze e le paure di un viaggio per tutti difficile e rischioso: Gladys partita dal Ghana nel 2004, Semhar partita dall’Eritrea nel 2009 e Nasreem partita dalla Siria nel 2013. “Abbiamo scelto tre donne perché, anche se sono percentualmente meno tra gli immigrati, spesso si mettono in viaggio con i loro figli e ci interrogano ancor più su questo fenomeno- spiega Stefano Liberti – Abbiamo deciso di fargli raccontare in prima persona la loro storia, con i loro volti e le loro voci, perché troppo spesso i migranti sono considerati soggetti passivi mentre noi volevamo che, raccontandosi, ridiventassero soggetti attivi. E uscire così dalla visione drammatica ed emergenziale dei numeri attraverso il vissuto delle persone”.

Tre i filoni del racconto: la memoria del viaggio, la traversata del mare, la loro vita di oggi. Nasreem in Siria era un’allenatrice di aerobica: “partire è stata una scelta difficile – racconta – quando mio marito ha comprato il biglietto per me e i miei figli mi ha detto: è come se vi avessi comprato un biglietto di morte”, e tra le lacrime ricorda i momenti in mare: “stringevo forte i miei bambini e pregavo, Dio non togliermi i miei figli!”. Gladys ricorda i momenti terribili passati in Libia: “lì non puoi restare perché puoi subire violenza o essere lapidata da un momento all’altro”. Anche per Semhar partire è stata una decisione inevitabile: “in Eritrea non riuscivo più a stare, è una continua violazione dei diritti”. Tutte e tre decidono allora di passare la frontiera affidandosi ai trafficanti. Le loro rotte e quelle di tutti coloro che provano a bucare i confini della Fortezza Europa sono spiegate dagli interventi di Marco Paolini che aiuta a ricostruire i flussi e le barriere delle migrazioni. Mentre le donne raccontano, la stanza di Giuseppe Battiston si riempie di oggetti che emergono dalle loro storie: La Bibbia e il corano, vestiti, pezzi di barche, mappe, tutti simboli della sua nuova conoscenza.

“Lo scopo di questo lavoro, che viene presentato in un giorno dedicato alla memoria, è dare spazio a una storia complessa fatta di sofferenza, ma anche di desideri e speranze – sottolinea Andrea Segre -. Spesso queste commemorazioni non sono fatte per ricordare ma per distrarre, noi cerchiamo attraverso questo lavoro di aiutare gli italiani a capire”. E così in Come il peso dell’acqua, le vite dei migranti si intrecciano alla cronistoria di questi ultimi anni in cui tutti gli sforzi economici, politici e militari dell’Europa si sono concentrati a tentare di chiudere la frontiera mediterranea: c’è chi l’ha fatto con più cautela e chi con più cattiveria, ma lo scopo unico era comunque e sempre “ridurre il numero di sbarchi”, fermare e contenere. “Ma perché andiamo nel Mediterraneo a salvare e raccogliere le stesse persone a cui neghiamo il diritto di venire qui? – si chiede infine Battiston –. Io non so se mia figlia avrà mai bisogno di un visto in vita sua, ma questo non vuole dire che non debba sapere cosa significhi”.

L’anteprima romana del documentario si è svolta ieri sera all’interno di un palazzo occupato nel cuore della Capitale. Qui da oltre un anno abitano circa 400 rifugiati eritrei, in tutto 27 famiglie con bambini. “Questa è la nostra casa – spiega Adam, uno degli occupanti – Siamo quasi tutti laureati e abbiamo fatto domanda d’asilo. Ma per far valere i nostri diritti abbiamo dovuto occupare questo stabile”. Dopo la proiezione di stasera, l’associazione ZaLab, che da anni racconta le storie di uomini e donne migranti, coordinerà le richieste per proiezioni pubbliche di Come il peso dell’acqua in scuole, università, associazioni, festival, e rassegne. (ec)

Da redattoresociale.it


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