Gioia immensa per la liberazione di Meriam ma non dimentichiamo Asia, Faiza e le altre

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Quando Meriam è scesa dalla scaletta del volo di Stato che l’ha portata via dal Sudan con in braccio Maya che indossava il vestitino che le avevo portato quando ci siamo viste a Khartoum, ho capito che mi stava dicendo grazie. Era un messaggio per me, una cosa mia e sua, in quel modo testimoniava l’importanza di un legane che, pur senza conoscerci, ci aveva incatenate l’una all’altra.
Era come se le catene che ha dovuto portare per mesi, e che non le hanno tolto neanche quando stava partorendo, avessero imprigionato anche me.
E sono tornata libera solo ieri, insieme a lei, quando è scesa da quell’aereo.
Fino a qui la mia esperienza umana, il racconto della donna, prima che della giornalista e attivista per i diritti umani. Da presidente di Italians for Darfur, che si è impegnata strenuamente per la sua liberazione lanciando una petizione un’ora dopo la sua condanna, e da membro di Articolo21, che da sempre si batte per i diritti umani dando voce a chi non ce l’ha, sento di dover andare oltre.
Certo oggi è il momento della gioia, del merito riconosciuto alle istituzioni che hanno operato affinché si arrivasse a questa soluzione, ma non si può, non si deve abbassare la guardia. Tante altre Meriam sono esposte ogni giorno a prevaricazioni, violenze e soprusi legati alla religione e non solo. In Sudan come in Iraq e Pakistan dove Asia Bibi è ancora in prigione, in attesa dell’esecuIone della condanna a morte per apostasia. La stessa accusa pendente su Meriam scongiurata solo perché la Corte d’Appello sudanese ha annullato la sentenza di primo grado.
L’incubo per Meriam è finito. Ma se la vicenda di questa giovane, che ha rischiato di essere impiccata per non aver rinunciato alla sua fede, è arrivata a una felice conclusione, i vescovi di Sudan e Sud Sudan lanciano un inquietante allarme: la situazione giuridica dei cristiani nel Paese è sempre più a rischio.
A parlarne apertamente è il vescovo sudsudanese della diocesi di Tambura-Yambio, Eduardo Hiiboro Kussala. Pur non ignorando i dettami della costituzione ad interim del Sudan, che garantisce pari diritti a tutti i sudanesi, senza alcuna distinzione di credo, monsignor Kussala denuncia che i cristiani sono considerati e trattati come cittadini di serie B.
“Anche se è permesso di assistere alle celebrazioni liturgiche – accusa  – a  Khartoum la libertà religiosa non sempre è garantita. Il caso di Meriam non è affatto isolato”.
L’ultimo conosciuto è del 2 aprile. Un’altrra donna sudanese, Faiza Abdalla, era stata imprigionata con le stesse accuse rivolte a Meriam.
La donna era andata all’ufficio anagrafe di El Gadarif, nel Sudan orientale, al confine con
l’Etiopia, per ottenere un documento di identità. Quando le è stato chiesto quale fosse la sua religione, le hanno contestato che dichiarasse di essere cristiana perché il suo nome era musulmano. A quel punto è scattato l’arresto per il reato di apostasia.
E’ iniziato così un procedimento giudiziario che ha portato all’annullamento del matrimonio con un uomo cristiano del Sud Sudan, che lei secondo quanto prescrive la legge coranica non poteva sposare, e, conseguentemente, i loro 6 figli dichiarati illegittimi.
Anche a Faiza, dopo la condanna, il giudice ha chiesto se fosse disposta ad abiurare la religione cattolica per tornare all’Islam. E lei lo ha fatto. Ha salvato così la sua vita ma ha rinunciato alla sua fede, ai suoi diritti. Per sempre.
E’ per Faiza, per Asia e per tutte le Meriam che non conosciamo che, ripeto, non possiamo e non dobbiamo abbassare la guardia.


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