L’ATTIVITA’ DI CACCIATORE PUO’ ESSERE RITENUTA COMPATIBILE CON LO STATO DI MALATTIA

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Con esclusione della giusta causa di licenziamento (Cassazione Sezione Lavoro n. 4869 del 28 febbraio 2014, Pres. Miani Canevari, Rel. Maisano).

Pietro P. dipendente della Bulgari S.p.A. è stato sottoposto a procedimento disciplinare e licenziato con l’addebito di essere stato visto in abiti da cacciatore in tre giorni in cui era assente per malattia. Egli ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Roma, che ha rigettato il ricorso. Questa decisione è stata riformata dalla Corte d’Appello romana che, ritenuti veritieri i certificati medici ha rilevato che era rimasta non provata la tesi della datrice di lavoro secondo cui il dipendente, svolgendo attività di cacciatore in giorni in cui era assente per malattia, avrebbe messo a repentaglio la propria salute, ritardando la guarigione e causando il relativo danno al datore di lavoro; né può affermarsi che tali episodi incrinino il vincolo fiduciario in modo tale da costituire giusta causa di licenziamento. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza della Corte d’Appello per vizi di motivazione e violazione di legge.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 4869 del 28 febbraio 2014, Pres. Miani Canevari, Rel. Maisano) ha rigettato il ricorso. Secondo la giurisprudenza costante di legittimità – ha affermato la Corte – l’espletamento di altra attività, lavorativa ed extralavorativa, da parte del lavoratore durante lo stato di malattia è idoneo a violare i doveri contrattuali di correttezza e buona fede nell’adempimento dell’obbligazione e a giustificare il recesso del datore di lavoro, laddove si riscontri che l’attività espletata costituisca indice di una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute ed ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione, oltre ad essere dimostrativa dell’inidoneità dello stato di malattia ad impedire comunque l’espletamento di un’attività ludica o lavorativa. La prova della incidenza della diversa attività lavorativa o extralavorativa nel ritardare o pregiudicare la guarigione ai fini del rilievo disciplinare di tale attività nel corso della malattia, è comunque a carico del datore di lavoro. La Corte territoriale – ha osservato la Cassazione – ha fatto corretta applicazione di tale principio di diritto sebbene abbia impropriamente tratto conferma della assenza di pregiudizio per il datore di lavoro dal rientro del lavoratore al termine della malattia, circostanza di per sé irrilevante ai fini in questione in quanto l’accertamento della mancanza di pregiudizio va operata ex ante; tuttavia permane la mancanza di prova di tale pregiudizio che avrebbe procurato nocumento al datore di lavoro, per cui è comunque esatta la conclusione a cui è pervenuta la Corte territoriale nel ritenere non giustificato l’impugnato licenziamento. Quanto alla proporzionalità della sanzione espulsiva – ha concluso la Corte – va ricordato il principio secondo cui il giudizio di proporzionalità tra violazione contestata e provvedimento adottato si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento del lavoratore e dell’adeguatezza della sanzione, tutte questioni di merito che ove risolte dal giudice di appello con apprezzamento in fatto adeguatamente giustificato con motivazione esauriente e completa, si sottraggono al riesame in sede di legittimità. Il giudice dell’appello ha correttamente valutato che l’illecito disciplinare commesso dal lavoratore, per la mancanza di pregiudizio di cui si è detto, non meritasse la sanzione espulsiva per il venir meno del vincolo fiduciario. Tale giudizio, per la sua logicità, si sottrae ad ogni censura di legittimità.

Da legge e giustizia.it


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