Così i mass media raccontano i mafiosi e l’antimafia

0 0
di Fabrizio De Angelis Curtis 

Il convegno “Legalità e mass-media”, organizzato dal Comune di Cervaro all’interno del progetto “Legalità e teatro sociale”, ha visto la partecipazione di Santo della Volpe, direttore di Libera Informazione e dello storico, scrittore e giornalista Marcello Ravveduto, moderati dal giornalista free-lance Andrea Meccia, i cui contributi hanno consentito di sviluppare parte delle riflessioni sul rapporto tra legalità e mass-media, nello specifico sulla produzione, attraverso i media, dell’immaginario collettivo mafioso nonché sulla necessità diimmaginare in contrasto ad esso un nuovo paradigma. La produzione mediale ha dato sfogo alla creazione di luoghi comuni e miti alla base di alcuni stereotipi: basti pensare al “Camorrista”, il film di Tornatore, e alla fiction il Capo dei Capi, che hanno contribuito, non poco, alla mitizzazione di due figure di mafiosi quali Cutolo e Riina. Tuttavia, se da una parte l’era della riproducibilità tecnica, ha spogliato l’arte della sua aura attraverso la diffusione di nuove tecniche di produzione, riproduzione e diffusione, come intuito da Walter Benjamin nel 1936, dall’altra, è proprio con lo sviluppo di tali tecniche che è stato possibile ‘consumare’ il prodotto da parte della cultura di massa. È grazie ai media infatti che ha preso forma – certo, secondo le loro logiche e codici e con i loro simbolismi – una public history del panorama mafioso del Novecento italiano, che non è soltanto la storia politica e sociale del Paese, ma «rappresenta la storia che la criminalità organizzata con le sue innumerevoli ferite ha inferto alla coscienza del Paese» e di chi lo abita. Cinema, televisione, carta stampata, musica, teatro e per ultimo internet hanno veicolato queste tematiche e talvolta contribuendo, nel corso degli anni, alla produzione di immaginari che spesso sono sfociati in miti.

Negli ultimi tempi, quelli dell’era trans-mediale, iniziata con l’introduzione del digitale nella televisione e con la tematizzazione della tv digitale, internet ha svolto un ruolo fondamentale nella diffusione e non dimeno nell’accumulazione di un patrimonio immaginario, tra cui è ascrivibile quello mafioso. La condivisione e la moltiplicazione dei temi è stata possibile grazie al passaggio dai media broadcast, in cui il rapporto tra l’emittente e chi riceve è uno a molti, ai mezzi di comunicazione che vedono il rapporto tra emittente e ascoltatore divenire in molti a molti. È proprio con il cambiamento di questo paradigma che tematiche e dinamiche mafiose, insieme ad alcune figure della narrazione mafiosa, sono diventate oltre che pubbliche, anche appartenenti al patrimonio di conoscenza collettivo che ogni soggetto ad ogni click può determinare: lo dimostrano i numerosi gruppi sorti su Facebook in cui echeggiano le discussioni pubbliche con commenti positivi sulle figure e sulle vite dei boss, dei killer, delle donne di mafia, dei narcotrafficanti, ricontestualizzandole ed esaltandole come elemento di affermazione sociale. La realtà virtuale è stata così il medium attraverso il quale l’immaginario mafioso si è spinto verso un potenziamento e una distorsione “folkloristica”, in cui una parte della cultura popolare si è riconosciuta in tale modello stereotipato per affermarsi socialmente, soprattutto laddove se il fine è costituito dal raggiungimento del benessere il mezzo è il delinquere e l’appartenenza ad un gruppo malavitoso. All’interno di questa produzione dell’immaginario mafioso gravita anche una scena commerciale non indifferente: basti riflettere sull’associazione tra mafia e made in Italy messa a punto da aziende straniere e anche da multinazionali, che ha portato sulla produzione di prodotti commerciali quali suonerie musicali con la colonna sonora del Camorrista, veri e propri format del tipo “Camorra’s got talent”, oltre che l’amplificazione a dismisura di canzoni neomelodiche.

La risposta a questi stereotipi, che hanno accresciuto un commercio simbolico capace di attirare soprattutto le fasce giovanili, è la produzione in antitesi di un immaginario collettivo anti-mafioso. Ad oggi, il panorama cinematografico ha visto fiorire tale immaginario con caratteristiche per lo più legate alla testimonianza, declinata all’eroismo e al martirio, in cui la forte tradizione cattolica della coscienza popolare ha reso più facile l’accettazione dei tragici epiloghi. Tuttavia, “non tutti nascono per essere eroi e martiri” ed è per questo motivo che da qualche tempo, almeno dal punto di vista cinematografico, la figura esemplare di chi si batte contro le mafie è passata dall’essere martire a rivestire il ruolo di cittadino attento di fronte alla giustizia o servitore dello Stato. Ne è testimonianza il film del 1993 di Giuseppe Ferrara, Giovanni Falcone, che inizia con il giuramento del magistrato sulla Costituzione (definita da don Ciotti «il primo testo antimafia nel nostro Paese»). Quella scena ci induce a pensare che la partita a scacchi tra la morte e Giovanni Falcone sarà inevitabilmente perduta dal magistrato, in virtù del rispetto per quel giuramento iniziale. Necessario in questo contesto diventa infine concepire e diffondere nell’immaginario collettivo che «gli ostacoli di ordine economico e sociale, […], limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

http://asspasolinicervaro.altervista.org/

Da liberainformazione.org


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21