“Rifugiato a casa mia”: l’accoglienza in famiglia funziona molto meglio del Cara

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Si concluderà ad aprile il progetto pilota di un anno sperimentato dalla Caritas Italiana in 9 diocesi. Altissima la percentuale degli inserimenti sociali: un’alternativa praticabile agli affollati e alienanti Centri per i richiedenti asilo e anche al sistema Sprar

 

Passare da un modello di accoglienza, quello dei grandi centri per i rifugiati e richiedenti asilo, ad uno che ne offra una micro-diffusa, direttamente nelle famiglie italiane. La Caritas italiana sta sperimentando a livello nazionale il suo progetto pilota “Rifugiato a casa mia”, che coinvolge 9 Caritas diocesane (Milano, Volterra, Savona, Aversa, Cagliari, Biella, Faenza, Teggiano Policastro e Genova). Lo scopo è favorire l’inserimento – nelle famiglie – di rifugiati e persone titolari di protezione internazionale.

 

L’iniziativa trae le mosse da un’attività simile, avviata dal Comune di Torino nel 2008, dal titolo “Rifugio diffuso”: dopo i primi tre anni, pur in piena crisi economica, l’iniziativa torinese fece registrare il 90 per cento circa di inserimenti sociali andati a buon fine, sia nel capoluogo piemontese, sia nelle periferie. Il progetto Caritas, avviato nel marzo 2013, si concluderà a fine aprile 2014 con la consegna del rapporto finale da parte del Consorzio Communitas onlus (nato nel 2009 dall’iniziativa di alcuni enti gestori di Caritas diocesane impegnate nell’accoglienza e nell’integrazione di migranti e rifugiati) alla Caritas italiana. Sono 25 le famiglie che stanno ospitando i cittadini stranieri; ciascuna riceve dalla Caritas 300 euro al mese.

«Il sistema nazionale di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale e rifugiati», afferma il responsabile del settore immigrazione della Caritas italiana, Oliviero Forti «mostra diverse criticità, sia in riferimento alla capienza, sia alla qualità dell’accoglienza. Pertanto la Caritas ha deciso di intervenire, coinvolgendo la comunità cristiana. Le famiglie vengono selezionate affinché diano garanzia delle migliori condizioni per un’accoglienza protetta e finalizzata a percorsi di autonomia o semiautonomia di chi viene accolto».

Infatti i limiti dei Centri di accoglienza richiedenti asilo (Cara), soprattutto quando ospitano migliaia di stranieri (in Sicilia, a Mineo, il Cara ha circa 4 mila persone) sono congeniti e i molti finanziamenti non risolvono il problema. In teoria, accoglienza e identificazione dovrebbero quasi coincidere; comunque non si dovrebbero superare i 35 giorni di permanenza in un centro, al fine di evitare attese inutili e snervanti per gli stranieri e costi eccessivi per chi accoglie. Nel tentativo di bypassare le difficoltà tipiche dei grandi centri e per favorire una migliore integrazione, si è allora creato il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR): una rete organizzata dagli enti locali sul territorio italiano, che si attiva quando lo straniero non può più essere accolto nei Cara ed è privo di mezzi sufficienti per sostenere sé e i suoi familiari, gestita dal ministero dell’Interno in convenzione con l’Associazione nazionale dei Comuni italiani (Anci).

«Tuttavia un certo numero di persone già riconosciute come rifugiate», afferma la sociologa Nunzia de Capite, «terminato il periodo di accoglienza nei Cara e non trovando posto nello Sprar, hanno come unica alternativa la strada: si accampano così in strutture di fortuna, luoghi fatiscenti, occupano edifici nelle grandi città. La protezione internazionale ricevuta dà diritto a cercare un lavoro e agli stessi diritti sociali di un cittadino italiano, ma per molti stranieri la mancanza di un tetto è sicuramente il primo, pesantissimo ostacolo all’integrazione». (Paolo Giovannelli)

Da redattoresociale.it


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