“Afghanistan fuori dall’Afghanistan”, voci da un paese che resiste e cerca la sua storia

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Poche settimane fa ho avuto l’onore di presentare, a Palazzo Rispoli, il reportage giornalistico di Enrico Campofreda e Patrizia Fiocchetti, Afghanistan fuori dall’Afghanistan. Voci da un Paese che resiste e cerca la sua storia (Poiesis Editrice). L’argomento è evidente già nel titolo, e malgrado sia estremamente attuale e serio e con aspetti decisamente gravi, i due Autori hanno avuto la capacità di scrivere in maniera scorrevole ed a volte leggera, raccontando di questo Paese, martoriato da trentanni di guerra, anche quei piccoli episodi di serenità quotidiana, e riuscendo a dare la voce solo al popolo.

Nel testo non troverete le dichiarazioni ufficiali di Karzai o di qualche altro politico afghano, né tanto meno quelle di Barack Obama o di qualche esponente dell’ONU, ma le decine di voci di chi, ogni giorno, combatte la propria guerra quotidiana contro la povertà, contro gli abusi, contro la violenza. Famiglie abbandonate nei campi profughi, giovani e bambini che, tra mille sacrifici, studiano e frequentano le scuole, malati gravi che non ricevono l’assistenza necessaria, donne giovani, giovanissime, ma anche meno giovani, che rischiano anche la vita per insegnare o imparare a leggere e scrivere, o un’attività artigianale che consenta loro di emanciparsi e lavorare.
Sono proprio le donne le vere protagoniste di questo saggio. Da quelle più anonime, a quella più conosciute, come la ex-parlamentare Malalai Joja, tutte unite dallo stesso triste destino di subire violenze, stupri, condanne a morte, solo per aver testimoniato la propria esistenza: esserci, vivere e voler vedere riconosciuti i propri diritti.

Leggendo le tante testimoniane così magistralmente raccolte da Campofreda e Fiocchetti, mi è venuto in mente il film Dresden, del regista tedesco Roland Suso Richter (2006), trasmesso anche in Italia, su RaiTre nel 2011. Il film è ambientato nel periodo del drammatico bombardamento di Dresda compiuto dagli Alleati tra il gennaio e il febbraio 1945. La sua peculiarità, che lo rende unico nel genere, è che non si vedono mai, come siamo abituati da un certo tipo di cinematografia, gli aerei dei “buoni” che sorvolano i cieli e gettano bombe per punire i “cattivi”. Ma il drammatico bombardamento viene ricostruito dal basso, ovvero dalla parte di chi, né buono, né cattivo, ma semplicemente succube, vede le bombe cadere sulla propria testa ed è completamente impotente, spinto al suicidio, sia che si nasconda nei rifugi, sia che cerchi un’improbabile salvezza nella città in fiamme.

Mi è venuto in mente proprio questo film, perché anche in questo libro, sebbene vi sia anche un ampio capitolo che tratta i problemi di politica internazionale che attraversano la regione, i veri ed unici protagonisti sono proprio il popolo afghano, quel popolo che non sta né dalla parte dei buoni, né dei cattivi, ma è solo vittima e vede le bombe cadergli in testa. Unica, ma importante differenza con il film, non vi è la rassegnazione dei perdenti. Anzi, più volte e in tante testimonianze non manca quasi mai la parola “speranza”.

Sperano soprattutto i giovani, sia i ragazzi e sia le ragazze. E non è una speranza riposta in una qualche entità superiore laica o religiosa, lo Stato, Dio, ma una fiducia nel futuro costruita, giorno per giorno,  con l’impegno,la fatica e un’indomita volontà. Tra le tante voci che vi parlano attraverso le pagine di Afghanistan fuori dall’Afghanistan, mi ha molto colpito la testimonianza di una ragazza di sedici anni, studentessa in una delle poche scuole organizzate con mille sacrifici da Hambastagi – Partito della Solidarietà – una formazione politica democratica e progressista, che afferma: Desidero studiare, questo è solo il primo passo, non ho intenzione di fermarmi. Voglio capire, crescere, diplomarmi e lavorare, un giorno, per la gente del mio Paese…

E alla domanda se pensa di poter entrare in politica risponde con sicurezza: Certo che lo potrò!
Una certezza che, molto probabilmente, tante donne nel nostro avanzato Occidente, ancora non hanno.

In sostanza, ci troviamo di fronte ad un reportage che non vuole essere il solito saggio di geopolitica o geostrategia sull’Afghanistan, ma, se mi permettete l’arduo accostamento, leggendolo ci accorgiamo di avere tra le mani una guida ragionata alla conoscenza del vero Afghanistan.
Quello di cui, purtroppo, non parla quasi nessuno.

Capiremo che molti dei nostri giudizi sono il frutto di quegli stereotipi a cui l’ha condannato l’Occidente progressista e democratico. E capiremo che: Non ci verranno dieci anni per vedere un Afghanistan libero e giusto, come si pensava tempo addietro, forse neppure venti o trenta. Non lo vedranno i miei figli, ma forse i miei nipoti sì. Non posso e non voglio abbandonare la strada scelta quand’ero una ragazza nei campi profughi di Peshawar. Nessuno afghano consapevole può e deve farlo, perché abbiamo una responsabilità storica: operare per il cambiamento. (Cit. Selay Ghaffar)

Autori

Enrico Campofreda è un giornalista ed ha collaborato con diverse testate giornalistiche, occupandosi di sport, politica estera e sociale. Attualmente collabora con diversi quotidiani on-line ed ha pubblicato anche una raccolta di racconti e due romanzi.

Patrizia Fiocchetti da più di venti anni si occupa di rifugiati e richiedenti asilo, soprattutto provenienti dall’area mediorientale e centro asiatica. Ha collaborato con il Consiglio italiano per i rifugiati e la Caritas di Roma. Parla correttamente la lingua persiana e ha coordinato il centro di accoglienza per i rifugiati afghani. Dal 2008 collabora con il coordinamento italiano sostegno donne afghane ed ha compiuto diverse missioni in Afghanistan, e collabora con varie testate giornalistiche.

Afghanistan fuori dall’Afghanistan. Voci da un paese che resiste e cerca la sua storia
Editore: Poiesis (Alberobello) Anno: 2013


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