Non profit, Moro: “Basta con la retorica della solidarietà e dell’altruismo”

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Ciò che conta è “l’interesse generale”, dice l’autore di Contro il non profit. Distinguere tra i “buoni” è rischioso, ma non si possono mettere tutti sullo stesso piano. 5 per mille? Importante, ma costruito su un presupposto sbagliato
Con il suo “Contro il non profit”, da poco uscito per le edizioni Laterza, Giovanni Moro ha negato il concetto stesso del non profit e del terzo settore in quanto fenomeno omogeneo (tanto da rendere forse inadeguato il titolo stesso di questo articolo…); ne ha contestato sia “l’eccezionalismo” italiano che i dati “ufficiali”; ha parlato dei numerosi approfittatori; ha demolito il sistema di leggi confuse e oppressive che lo caratterizzano. Ma ha anche proposto un nuovo sistema di classificazione per evitare commistioni e permettere i controlli necessari. Dopo la recensione pubblicata la settimana scorsa, torniamo oggi sulla questione con questa intervista all’autore.

Il suo libro è uscito da tre settimane, ma pur essendo molto esplicito non ha ancora suscitato, almeno pubblicamente, le reazioni che meriterebbe. Come lo spiega? E cosa si aspetta comunque?
Vedremo nelle prossime settimane. Capisco però che, sostenendo una tesi che mette in discussione alla radice il modo stesso di pensare al non profit, ci possa essere imbarazzo e necessità di riflessione. Inoltre ho cercato di evitare ogni sensazionalismo, che invece i media apprezzano molto. Quello che mi aspetto e mi auguro è che nel mondo degli addetti ai lavori si inneschi un processo di riflessione critica e che un pubblico più vasto, il quale ha dato per scontato che il non profit fosse il regno della solidarietà e dell’altruismo, si impegni a discutere seriamente e a produrre proprie valutazioni, giudizi e orientamenti sul modo di considerare e trattare il magma del non profit. Il tema infatti è troppo importante per lasciarlo soltanto agli addetti ai lavori, con rispetto parlando s’intende.

Nel libro afferma che la confusione di definizioni e di norme che caratterizzano il non profit, “per molti addetti ai lavori è stata un buon affare”. Chi a suo parere ne ha approfittato di più?
Un po’ tutti direi, anche se penso che nella maggior parte dei casi i benefici siano stati modesti; del resto chi si accontenta gode. Naturalmente più le iniziative realizzate erano lontane rispetto all’interesse generale, migliore è stato l’affare.

Perché nessuno ha mai sollevato fino ad oggi le critiche contenute nel suo libro, o almeno non in modo così organico?
Questo è l’unico vero mistero della faccenda, per me. Tutto quello che ho scritto nel libro a proposito della “invenzione del non profit” è così ovvio che è difficile capire perché il problema finora non sia stato posto. Non so però se sia stato più per pigrizia intellettuale, per ingenuità o per interesse. Ma anche l’alone di benemerenza che si è creato attorno al non profit ha fatto sì che esso sembrasse quasi qualcosa di naturale. Chi metterebbe in discussione la esistenza di una montagna o di un fiume?

Lei afferma ad esempio che la ricerca sul “non profit” italiano è tutta da rifondare. Ma da dove cominciare?
Dall’inizio, e cioè dalla identificazione dell’oggetto di cui stiamo parlando. L’errore è stato fatto all’inizio e da lì si deve ripartire, togliendosi dalla mente che esista qualcosa come il non profit. La acritica e ingenua accettazione della esistenza di questo “non-qualcosa” rende purtroppo i risultati del lavoro di ricerca poco attendibili e utili. Senza dimenticare che il problema non è italiano ma globale, per quanto l’Italia ci metta del suo.

Uno degli aspetti più delicati del libro riguarda la distinzione tra chi risponde a un reale interesse pubblico e chi a uno privato, benché legittimo. Non trova rischioso, oggi, il solo provare a stabilire chi è “più buono” in quello che è considerato il “mondo dei buoni”? Come gestire le sfumature, le zone grigie, le compresenze di pubblico e privato ecc.?
Certo, è un tema rischioso, ma non correre il rischio significa perpetuare la ingiustizia che consiste nel mettere tutti sullo stesso piano. Credo tuttavia che, se ci concentriamo non sul “chi” ma sul “cosa”, ossia sulle attività che vengono realizzate, questo rischio possiamo minimizzarlo. Il riferimento, qui, a mio parere è l’interesse generale, più che la solidarietà, un termine inflazionato da un uso retorico e opportunistico. All’interesse generale si può essere più o meno prossimi, e la stessa definizione dell’interesse generale muta con il cambiare delle condizioni sociali e lo sviluppo della comunità politica. Tutto ciò consente di tenere conto di molte sfumature. Certo, resta il fatto che è proprio difficile trovare un interesse generale nei club di tennis o di canottaggio riservati ai vip.

A questo proposito un passaggio che colpisce è quando, nel difendere le organizzazioni di azione civica e per la difesa dei diritti, rileva come queste incontrino spesso ostilità non tanto dal pubblico o dal privato ma proprio dal non profit, in nome di “una superiorità morale decisamente fuori luogo”…
Sì, credo che sia una esperienza negativa che hanno fatto in molti. Come parte di quell’alone di benemerenza che circonda il magma del non profit, si è generato un atteggiamento di rifiuto di praticare standard di dialogo e interlocuzione che nessuno, nel pubblico e nel privato, si sogna di negare, almeno in linea di principio. Un po’ c’è questo complesso di superiorità morale, in effetti, e un po’ anche la eco del vecchio organicismo, in forza del quale le organizzazioni non profit che producono servizi non possono che fare il bene dei propri utenti e lo conoscono meglio degli utenti stessi.

In diversi passaggi parla criticamente del 5 per mille. A suo parere è da rifondare? E come?
Io non ho niente contro il 5 per mille, anzi. E’ una misura importante, che ha catalizzato una inaspettata voglia degli italiani di investire nell’interesse generale. Il problema non è il 5 per mille, ma il presupposto su cui esso è costruito, ossia che ci siano organizzazioni di per sé di utilità sociale e non siano invece le loro attività a dover essere valutate e premiate. Quindi non è da rifondare il 5 per mille, sono da rifondare la concettualizzazione non profit e le politiche che hanno accompagnato la sua irresistibile ma non giustificata ascesa. (st)

Da redattoresociale.it


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