Turchia, il web mette paura. Perché è voce di libertà

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Il web mette paura. Perché è voce di libertà. Succede a ogni rivoluzione: succedeva in Libia quando Gheddafi oscurava la Rete, succede in Siria, è successo nei giorni scorsi addirittura in Cina per bloccare le celebrazioni di Tienanmen. Sta succedendo in maniera pesante anche in Turchia. Durante la notte a Smirne sono stati arrestati venticinque giovani e altri quattordici sono ricercati per un semplice tweet. Questo: “Taksim è ovunque, ognuno di noi è un albero di Gezi Park”. L’accusa è di incitamento ai disordini e propaganda. Secondo Ali Engin, responsabile locale della principale forza politica di opposizione, il Partito repubblicano del popolo, avevano “invitato la gente a scendere in piazza, dando informazioni false e diffamatorie”. Non casualmente qualche giorno fa il premier Erdogan aveva definito i social network una “cancrena della società”.

L’attacco al web è ormai sferrato. Il governo turco, insieme alla Commissione Informatica (BTK) ha deciso di introdurre filtri a partire dal 22 agosto con lo scopo di “proteggere gli utenti”. In questo modo il governo viola non solo la Convenzione Europea sui Diritti Umani, ma anche la stessa costituzione turca, secondo quanto riportano Reporters Without Borders e Bianet: quest’ultimo, già oggetto di censura in passato, giustamente parla di censura politica. Gli utenti di internet saranno costretti a scegliere uno dei quattro pacchetti previsti: famiglia, bambini, domestico o standard. I siti web saranno filtrati in base alle preferenze del BTK, ma non saranno rese pubbliche le liste dei siti bannati.

Saranno 138 le parole proibite: fra cui “masturbazione, donna, gay, studente”. Sono le  parole che il Direttorato per le Telecomunicazioni turco ha deciso di bandire dai domini internet per preservare la moralità del popolo, anche online. La settimana scorsa, infatti, le autorità hanno inviato una circolare agli internet provider, intimando loro di chiudere tutti i siti che contengono nell’indirizzo web un vocabolo della lista vietata e di impedirne l’apertura di nuovi che violino la direttiva ufficiale. Un anno fa, dopo il blocco di Facebook in Bangladesh e Pakistan, Istanbul aveva deciso di bloccare alcuni servizi di Google tra cui Analytics, Mail e Documenti per puntare nuovamente a oscurare YouTube. L’intenzione della circolare sulle ‘parole amorali’ esprime la volontà di spingere gli internauti all’autocensura ed è il primo passo verso l’attuazione di provvedimenti più restrittivi. La censura in Turchia blocca già oltre 7000 siti, fra i quali Blogspot, YouTube ed ora anche Vimeo, a causa di un documentario sulla centrale idroelettrica intitolato “La rivolta dell’Anatolia”. I netizen di tutto il mondo scuotono la testa ancora una volta, come quando nel 2007 arrivò la prima censura a YouTube in seguito alla pubblicazione di video che insultavano Kemal Atatürk – qualcosa che riguardò anche Google, Radio e televisione non sono escluse dalla censura: così “Sex and the City II” viene bannato perchè mostra un matrimonio gay e le sigarette vengono offuscate sugli schermi televisivi; ma ancora più seri sono gli attacchi rivolti a giornalisti del paese, che vorrebbero mettere a tacere le loro voci. La Turchia è il paese con più giornalisti in carcere al mondo, e solo recentemente è stata oggetto di attenzione dell’opinione pubblica internazionale in seguito all’arresto di Ahmet Şık e Nedim Şener, due giornalisti delle testate Radikal e Milliyet. Şık stava per pubblicare un lavoro illuminante sul Fethullah Gülen (L’esercito dell’Imam), mentre l’ultimo libro di Şener racconta le menzogne degli apparati delle forze dell’ordine a proposito dell’omicidio di Hrant Dink, nel quale sarebbero coinvolti membri dell’esercito ed alti funzionari di polizia.

Ma i due giornalisti non sono soli: fra il 24 marzo e l’11 maggio in Turchia sono state arrestate 2506 persone.  Un blogger, Ahmet,  per contestare il provvedimento del Tip, ha realizzato una pagina che contiene ben sette parole probite nell’url e l’unico link che compare rimanda al sito dell’autorità per le telecomunicazioni. Per ora non è ancora stata oscurata.


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