Iran, la grande partita di Khameney

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Sul finire dello scorso anno, quando in Siria tutto sembrava perso per Tehran, notai un articolo molto interessante sulla stampa americana: l’ora della verità arriverà con le presidenziali iraniane, prima delle quali nessuno tratterà con Tehran sul nucleare e Tehran non mollerà un millimetro sulla Siria. Difficile dire che Khameney non si sia giocato bene le sue carte.

L’Iran, come quell’articolo preconizzava, è riuscito nella sfida difficilissima di arrivare all’importantissima scadenza elettorale senza prima aver subito smacchi intollerabili in Siria, anzi… Buttando tutto quel che aveva nella battaglia, a cominciare dai pasdaran e le truppe scelte di Hezbollah, Khameney ha salvato il controllo della Siria, senza la quale la penetrazione khomeinista in Medio Oriente, fino al Medditerraneo, svanirebbe. Questo era l’obiettivo della “Primavera”, il vento anti-khomeinista della rivolta che voleva sostituire al khomeinismo “l’ideologia della vita d’ogni giorno”. E questo obiettivo Khameney ha contrastato.
Nel contempo ha regolato i conti con i pasdaran, che con la presidenza Ahmadinejad avevano sfidato il potere clericale. Ora con la probabile vittoria di Rowhani, un religioso, i pasdaran torneranno al posto loro, e il potere clericale tornerà al sicuro.
Khameny ha proibito a Rafsanjani di candidarsi, nome troppo robusto il suo. Lo ha consentito invece al meno ingombrante Rowhani, perché con la Siria in mano è l’ora di fare i conti con le sanzioni da nucleare, che stanno mettendo al tappeto l’economia iraniana. Rowhani, ex negoziatore proprio sul nucleare ai tempi di Khatami, è un uomo in grado di fare la sua parte.
Intanto il regime incassa la soddisfazione di poter dire che la gente è andata in massa a votare e che la volontà del popolo è stata rispettata. Il capolavoro di Khameney?

Chi sta in acque agitate è Obama: “voglio passare alla storia come quello che ha portato gli Stati Uniti fuori dalle guerre mediorientali”, ha ripetuto spesso. Ma la guerra c’è, e ha destabilizzato molti amici di Obama: Giordania, Libano, Turchia. Mandando armi leggere agli insorti siriani il presidente non pensa certo che vinceranno, né pensa a nuove guerre: piuttosto penserà, avvertono in molti, a trattare, ora che le presidenziali iraniane sono passate. Ma trattare su quel che interessa, i diritti dei siriani non sembrano in agenda. Non a caso Zbigniev Brezinski, dal suo salotto statunitense, dice che in Siria c’è una guerra per il potere non per la democrazia.

da “Il Mondo di Annibale”


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