ILARIA URBANI: “La buona novella”. Quella chiesa di frontiera ignorata dalla gran parte dei media

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Si chiama “La buona novella”, un titolo che si ispira al noto album del cantautore Fabrizio De Andrè e racconta storie di tredici preti di frontiera che operano quotidianamente nel territorio di Napoli, della sua spesso martoriata provincia e in quello del litorale domizio. È il libro pubblicato per Guida editore dalla giornalista napoletana Ilaria Urbani (collaboratrice di “La Repubblica” e del settimanale “D – La Repubblica delle Donne”, ndr). Un testo che ha una prefazione “d’eccezione”, dato che a firmarla è stato Roberto Saviano, autore del best seller “Gomorra”. Un volume, quello della Urbani, che nasce dall’esigenza di raccontare le opere di tanti sacerdoti che spesso passano sotto silenzio mediatico. In attesa delle prossime presentazioni – il 9 giugno parteciperà al Premio Cimitile (Nola) e il 14 giugno sarà a Grosseto – la cronista di “Repubblica” risponde alle domande di “Articolo 21”.

Perché ha scelto di raccontare Napoli, la sua provincia e il Litorale Domizio attraverso gli occhi e le esperienze di tredici sacerdoti di frontiera?
“In questi anni di attività giornalistica mi sono spesso imbattuta in figure di religiosi intenti non solo a confrontarsi con questioni morali e spirituali, ma anche con problemi sempre più riguardanti difficoltà materiali.  La loro assistenza quotidiana è concentrata in alcune comunità nei dintorni di Napoli e di quei luoghi che spesso sono dimenticati dalle istituzioni. Testimoni della legalità, protagonisti della lotta alla camorra, nei quartieri dove manca lo Stato. Mi affascinava l’idea di intraprendere un viaggio in presa diretta attraverso i loro racconti mai scontati, sempre appassionati, decisamente dolenti, ma anche carichi di speranza”.

Secondo lei, ha ancora senso parlare di “buona novella” in un periodo storico in cui la fede per molti vacilla alla luce degli scandali che hanno coinvolto la Chiesa cattolica?
“Il libro nasce prima dell’elezione di Papa Francesco. Nelle settimane in cui andava in stampa, Papa Benedetto XVI aveva deciso di cedere il passo. Questa coincidenza è una casualità, ma si intreccia in pieno con lo spirito di questi sacerdoti che vivono da anni la loro missione umana, prima ancora che religiosa, nel segno del messaggio di Papa Francesco. Che altro non è se non “la buona novella”. Oltre gli scandali e gli intrighi di palazzo, c’è sempre stata una Chiesa militante, schierata al fianco degli ultimi, che aspettava solo di essere rappresentata da una figura pontificale. Jorge Bergoglio non si sta risparmiando: parla di cristiani da salotto, cristiani part-time, di riforma del sistema finanziario e di fermare il turbocapitalismo. Un coraggio e una presa di posizione molto più forti di quelli dei politici”.

Quale dei sacerdoti che ha scelto di raccontare rispecchia ancora il principio della “buona novella”?
“Tutti, ma ve ne sono molti altri. Per fortuna centinaia di uomini e donne, laici e religiosi, potevano essere raccontati in questo libro. Si doveva però operare una scelta, anche se sono tante le figure che si schierano silenziosamente a favore dei più deboli, siano essi migranti, precari, clochard, disoccupati, adolescenti senza l’idea di un futuro”.

A quale di queste figure, se può dirlo, è più “affezionata”?
“Ciascuna mi ha interessato e credevo avesse la forza narrativa del racconto. Dal cappellano del carcere di Poggioreale don Franco Esposito, che definisce “fuori-legge” il sistema carcerario italiano a causa del sovraffollamento endemico e mal gestito dalle istituzioni, a don Aniello Manganiello, ex parroco di Scampia. Da padre Antonio Bonato, missionario comboniano a Castelvolturno a don Félix Ngolo, tifoso sfegatato del Napoli che fa del calcio un momento di integrazione nell’hinterland flegreo a don Tonino Palmese e padre Alex Zanotelli, dall’Africa a Napoli per la cosiddetta rivoluzione dal basso”.

Com’è caduta su Roberto Saviano la scelta dell’autore della prefazione? Molti lo reputano ormai un tantino “inflazionato”. Lei cosa ne pensa?
“Credo che Roberto Saviano non sia inflazionato, il successo di uno scrittore lo decretano i lettori e lui ne ha milioni nel mondo. Saviano  è riuscito a far diventare popolari temi che prima erano relegati ad una piccola elité. Ma spesso ad un giovane in Italia non è permesso avere successo, soprattutto se grazie alla letteratura. Il suo tentativo di fare cultura, trasversalmente, portando l’impegno civile e il genere inchiesta, spesso anche in tv, è meritorio. A lui mi lega un’amicizia iniziata agli esordi della nostra attività giornalistica alla redazione de “Il Manifesto” a Napoli. “La buona novella” è dedicato a don Peppino Diana, il sacerdote ucciso dalla camorra nel 1994, la cui memoria è stata spesso infangata e dimenticata. È stato proprio Saviano a restituire dignità e giustizia mediatica a questa figura che, ricordiamolo, ha affrontato la camorra col coraggio delle parole. Il suo j’accuse “Per amore del mio popolo non tacerò” solo da pochi anni viene studiato in migliaia di scuole per educare alla legalità”.

Qual è il filo conduttore che lega queste figure, così diverse, di uomini di chiesa che lei racconta?
“C’è un fil rouge della speranza in queste storie minime, a loro modo straordinarie. La volontà instancabile di costruire un futuro migliore impegnandosi ogni giorno per le proprie comunità. È per questo che non ho scelto la consueta forma intervista, ma mi sono affidata ai loro racconti, già forti e densi di verità, per fotografare la realtà oltre la cronaca”.

C’è speranza per Napoli, secondo lei, partendo proprio dall’esempio di questi preti-coraggio?
“In fondo alle storie di degrado ed emarginazione, di lotta alla camorra e alle prevaricazioni c’è molta speranza, arriva da quella voglia di cambiare dal basso le contraddizioni di una società sempre in corsa verso la costruzione della propria immagine estetizzante e performativa sempre più spesso incapace di mettere al centro le persone”.


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