Trafficante di virus e l’ambiguità del reale. Intervista a Costanza Quatriglio

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Per finirla con l’ambiguità, bisogna semplicemente finire di vivere”.
Albert Camus (La caduta, 1956)

Al Torino Film Festival 2021, Costanza Quatriglio ha presentato in anteprima il suo ultimo film: Trafficante di virus è liberamente ispirato all’intricata vicenda privata e pubblica della virologa Ilaria Capuanarrata nel suo libro autobiografico Io, trafficante di virus. Una storia di scienza e di amara giustizia. (Rizzoli 2017), scritto insieme al giornalista Daniele Mont D’Arpizio. Dopo la presentazione del TFF, il film è uscito nelle sale cinematografiche dal 29 novembre al primo dicembre. Da lunedì 13 dicembre è disponibile sulla piattaforma Prime Video. La trama complessa del film è ben raccontata nella recensione già pubblicata su Atricolo21: https://www.articolo21.org/2021/11/io-trafficante-di-virus-un-film-ispirato-alla-biografia-di-ilaria-capua/ .

Nell’intervista che segue si vuole scavare dentro, oltre il film, con la regista Costanza Quatriglio. Perché Trafficante di virus apre molti elementi di riflessione. È un film che dilata domande, senza fornire risposte; trova molti tunnel da scavare e, di fronte all’ambiguità del reale, non intende dare soluzioni. Piuttosto, “resta sulla soglia” della rappresentazione del reale, nel difficile intreccio che si snoda tra documento e finzione. E mantenersi sulla soglia è un esercizio di equilibrio instabile assai faticoso. Come i labirinti di Borges, le scale di Escher, le “storie semplici” di Sciascia, in Trafficante di virus tutto è intersecato, intrecciato e resta, inevitabilmente, misterioso: cronaca, inchiesta giudiziaria, inchiesta giornalistica, narrazione di giochi tanto meschini quanto diffusi nella gerarchia del potere all’interno del mondo universitario, mortificazione della ricerca scientifica, virus e attualità, femminilità maltrattata. E il cinema, allora, dilata le sue possibilità di sguardo e si fa gioco, mescolanza di generi, autoironia, mette in scena diverse possibilità di manifestazione del reale, lasciando così che esso si autorappresenti attraverso fatti e personaggi, in modo fenomenologico. Comincio quest’intervista dicendo a Costanza Quatriglio che il suo film desta curiosità, attrae perché semina dubbi e la concludo confermando la sensazione iniziale, con la certezza che è anche un film da voler capire. E non è scontato, nella distrazione generale.

Che film è Trafficante di virus?

È un film che racconta un garbuglio talmente complesso da essere quasi irraccontabile. Quando ho letto la sceneggiatura scritta da Francesca Archibugi, ho pensato a quanto siano stati pesanti gli ultimi due decenni italiani, pesanti e quasi insondabili. È per questo che lavorando alla costruzione del film ho pensato che la chiave di lettura per me dovesse essere la insolubilità del reale, e anche la sua equivocità. Non dovevo fare un film che cercasse di offrire delle verità oppure che provasse a imitare la cronaca; le ricostruzioni con dati, numeri e indirizzi le fanno i giornalisti meglio di chiunque altro.

Ho voluto piuttosto fare un film che si fermasse sulla soglia della rappresentazione del reale: come se il dato di realtà – e quindi anche il dato documentale – potesse essere rappresentato nella quintessenza dell’apparire: i fatti appaiono ai miei occhi attraverso un processo di autorappresentazione che gioca persino con gli immaginari dei generi cinematografici. Questo modo di concepire il film è stato mantenuto anche nel lavoro su e con i personaggi che hanno una funzione pubblica; ho cioè lavorato sull’autorappresentazione del potere tramite gli stilemi del ruolo che i personaggi assumono. Non ho sentito il bisogno che il film proponesse indagini verso verità da scoprire: chi ha dato l’informativa dei Nas alla stampa; perché il magistrato ha tenuto per così tanto tempo l’indagine ferma e così via. Non volevo che i fatti fossero oggetto di trame forzatamente compiute. Ho pensato che, come in certa letteratura (penso a Sciascia), la insolubilità del reale mi avrebbe permesso di fare un film in cui l’ambiguità connaturata alla natura umana avrebbe richiesto comunque una lettura non passiva delle proprie responsabilità, tirando in ballo chi guarda. Ed è proprio questa postura che fa sì che il film non vada oltre le apparenze, non si preoccupi di dire alla fine come sono andate le cose, piuttosto come non sono andate: ciò che non sappiamo produce domande destinate a restare senza risposta.

Perché il film è costruito in modo così complesso e discontinuo nel tempo?

È la vicenda in sé che si compie per crasi ed ellissi. Con Francesca Archibugi abbiamo trovato soluzioni narrative per provare a raccontare periodi molto lunghi, caratterizzati da aspetti molto complessi. Credo che se si fosse voluto sciogliere la storia dal punto di vista cronologico, si sarebbe dovuta realizzare una serie televisiva in tantissime puntate.  Bisogna anche considerare che l’aspetto scientifico, gli spazi della ricerca scientifica, sono determinanti. Volevamo raccontare anche questi, attraverso un’immagine discontinua, nel corso del tempo.

Mi spiego: il film si apre con l’immagine di un laboratorio statunitense di massimo contenimento. È un laboratorio BSL4 (Biological Safety Levels: livello di sicurezza biologico dei laboratori di analisi di ricerca scientifica sugli oggetti patogeni. I laboratori di livello quattro sono quelli nei quali si studiano oggetti patogeni di altissimo rischio biologico). La protagonista, per tutto il resto del film, lavora in un BSL2 (laboratori nei quali si lavorano oggetti patogeni meno aggressivi), desidera di poter fare le sue ricerche in un BSL3 (laboratori dove si studiano oggetti patogeni di media aggressività) e sogna di costruire il BSL4 più bello del mondo.

Ecco, anche questo aspetto della vicenda è fondamentale e non volevamo certo rinunciare a rappresentare le difficoltà che gli scienziati hanno nello svolgere il lavoro di ricerca, mettendo anche a rischio la loro stessa esistenza. L’équipe della nostra protagonista ha studiato la prima e la seconda epidemia di aviaria, nel 1999 e nel 2006. Il racconto di come sono state affrontate le epidemie tra animali potenzialmente pericolose per gli esseri umani, certamente ci risuona oggi perché viviamo da due anni con una pandemia.

Chiarito l’assetto del film, vorrei che ci parlasse di un elemento che caratterizza tutti i piani della narrazione: la “colpevolezza”. Questa donna si sente non adeguata, e quindi spesso in colpa, oscillando tra esaltazione e mortificazione. Non sembra essere una buona compagna, una madre presente, una scienziata accondiscendente col potere; c’è la colpevolezza giudiziaria e la colpevolezza mediatica, in un momento in cui è un personaggio pubblico, oltre che una scienziata. La “colpa” è molto presente in questo personaggio.

La protagonista si mette in discussione perché è continuamente messa in discussione. A un certo punto del film lei stessa chiede al marito: “Io sono arrogante?”. Questa domanda va messa in relazione con quanto le chiede il magistrato: “Perché lei dice sempre ‘io’? Sta parlando di un lavoro collettivo, quindi perché dice ‘io’, invece di ‘noi’?”. Ecco, questa determinazione dell’‘io’ è la determinazione di un ‘io colpevole’. Anche questa domanda è ambigua proprio perché fatta dal magistrato; mi spiego: il giudice sa perfettamente che la responsabilità penale è personale – quindi è singolare e non plurale –, nello stesso tempo colpisce la protagonista sul suo punto debole, quella che la farà vacillare intimamente. L’ ‘io’, invadente ed esposto, diventa un bersaglio. L’ambiguità di questa domanda mi dava anche la possibilità di determinare meglio il senso di colpa della protagonista e, quindi, di caratterizzarne la fragilità. Il fonema ‘io’ è di per sé ambiguo in questo caso e rappresenta meglio di qualsiasi altra parola tanto la responsabilità penale, quanto la personalità di questa donna, accusata di essere egocentrica, arrogante, aggressiva. Spero traspaia l’inquietudine della complessità: a chi guarda è richiesto uno sforzo ulteriore a quello del ‘vedere”, si chiede di scegliere se fare o meno questo sforzo. Se lo spettatore ha voglia, potrà cogliere questa ricerca, altrimenti potrà godersi la trama e basta.

Lei, Francesca Archibugi, la direttrice della fotografia: tante donne, tutte insieme, tutte registe. Come ha influito la componente femminile, nel realizzare questo film?

Credo che ciascuna di noi avrebbe voluto rispondere in malo modo ai complimenti sessisti dei quali è vittima la protagonista di questo film. Io stessa ne potrei riportare una quantità, come molte donne. L’esser donna ci ha forse aiutato a stare accanto a questa persona che deve fare lo slalom tra alcuni modi maschili, piuttosto arroganti, di reagire alla leadership femminile.

Quando è stato scritto questo film (tremendamente attuale nell’aspetto della narrazione scientifica sul salto di specie del virus dell’aviaria dagli animali all’uomo), prima o durante la pandemia da Covid19?

Sono stata coinvolta nel marzo del 2021, quindi da marzo di quest’anno abbiamo lavorato alla sceneggiatura, a giugno ero sul set e ora è stato presentato al Torino Film Festival, è stato nelle sale cinematografiche il 29, 30 novembre e il primo dicembre e dal 13 dicembre è su Prime Video. Il Covid-19, il salto di specie, la trasmissione dei virus dagli animali all’uomo, questi elementi di attualità mi hanno aiutato a comprendere in modo più veloce la narrazione scientifica e, contemporaneamente, mi hanno dato la possibilità di avvicinarmi alle paure e alle aspettative degli spettatori. Nel 1999 la protagonista si occupa della prima aviaria, nel 2006 della seconda aviaria, parla già di virus potenzialmente pandemici per l’uomo, afferma la necessità di lavorare e studiare in laboratori di ricerca più sicuri perché i virus si fanno sempre più aggressivi. D’altra parte, avevo già fatto ricerche per raccontare lo stato della sicurezza dei laboratori scientifici dei luoghi dove si studia, in questo caso dei laboratori di chimica delle università, perché nel 2013 ho realizzato il film Con il fiato sospeso.

Ma vorrei poter dire di più. Quando, nel marzo 2020, c’è stato il primo lockdown dovuto allo scoppio della pandemia, ho scritto una lettera a tutti gli studenti del Centro Sperimentale di Cinematografia di Palermo (di cui Costanza Quatriglio è direttrice artistica) per dire ai ragazzi che non potevamo permetterci di aspettare che la realtà tornasse come prima, perché non sarebbe successo, non certamente da lì a poco. Gli allievi che hanno saputo muoversi in questa realtà nuova e sconosciuta sono riusciti a fare film molto interessanti. Dico questo perché viviamo un tempo che ormai fa parte di tutti, in tutto il mondo. Sin da subito ho capito che bisognava fare i conti col cambiamento che stava avvenendo; quindi, non me lo chiedo quasi più se ho scritto e girato questo film prima, o durante la pandemia. C’era senz’altro un prima e c’è senz’altro un dopo, ma questo dopo dura da talmente tanto tempo che è diventato ciò in cui viviamo.

“Cinema civile, cinema impegnato, cinema sociale”: sono tutte etichette nelle quali questo film rischia di essere inserito.

Chi mi conosce sa che non parlo mai di cinema in questi termini. Credo che il cinema possa essere politico qualsiasi cosa racconti. Questo film è nato in un sistema industriale. Per me, che ho fatto tanto cinema cosiddetto indipendente, se proprio devo trovare una definizione – e io sono restia alle definizioni – lo chiamerei “cinema di intrattenimento”. La definizione “civile” mi sta stretta perché ritengo che ogni volta che si mette la macchina da presa da qualche parte si fa un gesto di cittadinanza, si propone una visione del mondo.

In Trafficante di virus viene mostrata la vicenda in modo preciso, accurato, neutrale, evitando che uno tra i molteplici aspetti prenda il sopravvento sugli altri. Questo modo di porre il film non consente allo spettatore di prendere posizioni precise. Abbiamo detto che la protagonista è vittima di sistemi di poteri (magistratura, media, università), ma è anche arrogante, vanitosa, sfacciata. Non si può dare una definizione precisa, insomma, della sua personalità che sfugge in continuazione a un canone.

Lei parla di “neutralità”, io invece affermo che il film vuole “stare sulla soglia della rappresentazione del reale”. Per me sarebbe stato faticoso (oltre che farraginoso) fare un film che non avesse questo imprinting. Non amo le sceneggiature che devono chiudere le storie per forza, preferisco mettere in questione i temi trattati dalla trama. In questo caso, le questioni restano tutte aperte. Le domande si moltiplicano. E mi pare giusto interrogare la realtà attraverso il cinema. E poi, c’è un’altra componente per me importante, in questo film: il giocare con i generi cinematografici. Mi sono divertita a mescolare legal, inchieste giornalistiche, thriller psicologico. Queste scelte mi hanno permesso anche di non prendermi troppo sul serio: in alcuni momenti il film non si prende troppo sul serio, è più evidente nella scena dell’interrogatorio americano in commissariato. E c’è anche un aspetto di gioia che, spero, traspaia soprattutto nelle scene dei laboratori: la musica, i balli, le prese in giro tra colleghi, la complicità e la solidarietà sincere tra tutti i componenti di questa équipe di scienziati, le loro tensioni che si stemperano nell’ironia.

C’è strato un incontro con l’interprete del film, Anna Foglietta, e l’autrice del libro da cui è tratto, Ilaria Capua?

C’è stato un incontro su Zoom, sì. È avvenuto quando le riprese erano già iniziate. Ilaria Capua è stata molto gentile. Ha condiviso con noi la volontà che la protagonista Irene Colli, ispirata alla sua vita, potesse raccontare anche tante altre donne. Con Anna non abbiamo lavorato sulla mimesi. Quando Anna ha incontrato Ilaria aveva già trovato i propri varchi, le chiavi di lettura per attraversare la vita del personaggio stava interpretando. Anna e Ilaria, quindi, hanno potuto fare una conoscenza libera, serena, dettata dalla volontà e dal piacere di conoscersi, non dall’esigenza di studiarsi.


Perché in questo film non c’è alcun riferimento ai fatti reali? Non si fa mai, per esempio, il nome del giornale “L’Espresso”, o del giornalista Lirio Abbate (che ottenne misteriosamente parte dei fascicoli giudiziari dell’inchiesta dei NAS e della Procura di Roma riguardante Ilaria Capua), e che il 3 aprile 2014 pubblicò un articolo, con tanto di copertina, definendo Ilaria Capua “trafficante di virus” per aver reso disponibili
 i dati del virus della aviaria, a rischio pandemico, su piattaforme digitali ad accesso libero e con scopo di lucro?

Quando ho letto il primo copione scritto da Francesca non mi sono nemmeno posta questa domanda. Per me un film non può restare impigliato nella cronaca, anzi, come ha scritto Concita De Gregorio, il film racconta qualcosa di spaventosamente più ampio della vicenda stessa di Capua, qualcosa che ha travolto e continua a travolgere le nostre vite. In questo modo chiunque nel mondo può riconoscerci le dinamiche che si innescano tra potere e scienza, individui e società. Un film opera necessariamente un trasferimento dalla cronaca a un mondo autonomo, che è il modo del film, dal caos delle vicende reali al cosmo che ha un sistema proprio di regole, che sono quelle della drammaturgia. Quindi, anche il lavoro del personaggio del giornalista, nel film, non ha la pretesa di raccontare per filo e per segno quella de “L’espresso” del 2014. Di quella vicenda c’è il cuore emblematico, cioè la questione della pubblicazione di un’inchiesta considerata di indubbio interesse sociale e rilevanza pubblica.

Tutti i personaggi del film e tutti i luoghi sono trattati per il loro potenziale emblematico. Il film è girato, per lo più, in teatri di posa o in location riadattate, come nel caso della redazione del giornale. I laboratori li abbiamo ricostruiti al CNR di Monterotondo, ma non utilizzando dei veri laboratori, bensì ricostruendoli completamente in spazi che abbiamo ritagliato appositamente, abbattendo muri e alzandone altri, con macchinari scientifici forniti dallo stesso CNR, che ringrazio ancora.

Come pensa che il pubblico di una piattaforma “generalista” come Prime Video possa prendere questi molteplici livelli di lettura, che pongono domande senza dare risposte, lasciando differenti piani della narrazione aperti, giocando con i generi cinematografici? Lo ha detto lei stessa: questo è un film generalista. Forse lo è come prodotto. Ma nella sua costruzione, no.

So che i film che cercano di rassicurare sono senz’altro più appaganti, quelli che lasciano questioni aperte ci costringono a interrogarci chiamandoci in causa. Credo anche che i cosiddetti spettatori siano molto più curiosi e appassionati di come siamo soliti ritrarli. E poi, ogni film ha la sua storia, noi che li facciamo li consegniamo al contesto, al momento storico, agli allineamenti dei pianeti, alle giornate piovose o assolate, Vedremo che succederà. Penso a Sembra mio figlio (2018), recitato in persiano, anzi in hazaragi, la lingua del popolo hazara, perseguitato dai talebani; oggi che c’è un gran parlare di Afghanistan, il film passa per essere un film attuale, quando – ora è più che evidente – attuale lo era anche prima.


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